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Nel segno della Musa.

“Ritratti d’artista”
Maestri del ‘900
Alessandra Bonoli. Una ricerca artistica e antropologica che viene da lontano. E che da sempre indaga i misteri del sacro attraverso lo studio in lontani siti archeologici delle geometrie di antiche civiltà del passato. Nascono così le sculture di Alessandra Bonoli, artista faentina apprezzata a livello internazionale.

Come e quando avviene il suo incontro con l'arte e come nasce il suo percorso da scultrice?

«Mio padre lavorava con il marmo e una sera, avrò avuto più o meno 8 anni, tornò a casa con un piccolo pezzo di marmo chiaro, grezzo e mi disse “Sandra, ci sono stati uomini, erano grandi artisti del passato, che da una pietra hanno creato sculture che respirano”. Io non capii bene il concetto, ma questa frase mi incuriosì e mi ronzò per anni nella mente. L’idea che ci fossero stati artisti così bravi mi spinse a guardare la storia dell’arte. Dico, guardare, perché da bambina soprattutto sfogliavo i libri, in cerca di sculture ‘vive’. E’ così che iniziò il mio primo approccio con l’arte che divenne, poi, un grande amore per l’archeologia. Un amore che mi spinse a viaggiare non come turista, alla ricerca di mondi perduti, alla ricerca della nostra origine, della cultura umana diramata in molteplici e complesse tradizioni. Fin dall’inizio sono stata attirata dall’insieme, ossia dallo spazio della costruzione, nei suoi rapporti tra pieni e vuoti e non dalla forma in sè. Un’opera scultorea, infatti, è soprattutto spazio nello spazio, massa nel vuoto, movimento nell’aria. Quando parlo di opere scultoree mi riferisco anche all’architettura ed in particolare alle architetture sacre dell’antichità, che erano complessi sistemi scultorei abitabili, le cui strutture matematicamente formali, non tralasciavano il sapere universale dei simboli. Quando mi sono iscritta all’Accademia di Belle Arti ho scelto il Corso di Pittura con il professor Concetto Pozzati, in quanto insegnante non tradizionale. Con lui tutte le arti potevano concentrarsi in un unico linguaggio e, questo, era il tipo di ricerca che intendevo percorrere. A quell’epoca ho sperimentato vari materiali e tecniche. Conclusi gli studi è iniziata la mia vita di viaggiatrice instancabile, ma che già aveva avuto qualche precedente. Durante i viaggi i miei taccuini annotavano antiche scritture, simboli, architetture, sensazioni, visioni, suoni e odori da cui, poi, prendevano forma i miei pensieri fatti di parole e di tracciati grafici. Alcuni miei disegni scritti (testi poetici) sono stati musicati dal compositore tedesco Hans Jurgen Gerung e presentati in varie occasioni (ultimamente nel duomo di Costanza). In conclusione, le mie sculture nascono dagli abissi del passato, dal ‘dimenticato’, dalla natura che ci circonda e mi sento come un albero con le radici ben piantate in terra verso mondi sepolti ma con i rami proiettati nell’infinito cielo».
Impronta digitale 1998 cemento blu
Agli esordi della sua carriera come venivano percepite le artiste che si dedicavano alla scultura?

«Onestamente non ho mai avuto nessun tipo di problema e non sono stata mai trattata in modo differente rispetto ad un artista maschio. Ho cercato d’imparare a lavorare vari materiali tra cui quelli tipicamente maschili, dalle pietre ai metalli, perché senza l’esperienza tecnica non potevo progettare e, nelle officine o nei laboratori in generale, ho ricevuto sempre molta collaborazione e rispetto, anche se suscitavo tanta curiosità. In poche parole erano contenti che una donna fosse interessata ad entrare in ambiti solitamente relegati agli uomini. C’è da dire che quello degli anni’70 e ‘80 fu un bel periodo, pieno di fermenti culturali, di trasformazioni sociali, di illusioni e gli artisti tendevano ad unirsi in gruppi per organizzare eventi, scelte stilistiche o percorsi sperimentali e le artiste avevano lo stesso spazio dei loro colleghi. Non mi pare che le artiste venissero considerate figurine inferiori. A volte, però, è capitato che qualcuno pensasse di poter ‘approfittare’ del proprio ruolo per far credere di aprire certe porte al mondo femminile con mezzi biechi ma, fortunatamente, questi sono stati rari personaggi. Solo mentalità retrograde possono pensare che una donna artista, in quanto fuori da canoni ordinari e aperta a nuove esperienze, possa essere di facili costumi, travisando il concetto di libertà, di ricerca e sminuendo il valore stesso della donna. Per quello che ho vissuto io penso che le persone vedessero le scultrici come esseri inusuali e un pochino matte, forse anche in funzione della fatica fisica che la scultura comporta. In generale mi sono sentita sostenuta e molto aiutata da chi era fuori dai giri dell’arte, dalle persone comuni che mi regalavano arnesi e materiali o mi ospitavano nelle loro officine insegnandomi i trucchi del lavoro oppure, durante i trasporti e nelle preparazione degli imballaggi, si offrivano per darmi una mano. Nella testa di chi, invece, operava nel mondo dell’arte c’era l’idea che una donna artista potesse essere ‘precaria’, ossia essere un bagliore luminoso in prossimità di spegnersi con la nascita dei figli. Questo può anche essere accaduto, in fondo l’Italia non è nemmeno oggi un paese culturalmente avanzato capace di difendere le categorie femminili (senza le condizioni difficilmente si possono ottenere spazi operativi specifici, così come avviene nel nord Europa), ma non si può nemmeno generalizzare».
Magnete 2010 acciao h.cm.600
Da allora cosa è cambiato ?

«Forse in Italia non è cambiato molto anche se i confini si sono ampliati. Ci sono, comunque, più artiste rispetto a un tempo ma vedo che si orientano soprattutto verso paesi esteri. Il mondo dell’arte oramai va oltre i confini, nei giovani la mentalità è cambiata, si è mescolata come le lingue e le esigenze guardano altrove, specialmente in ambito economico. Per proporre il proprio lavoro a livello internazionale l’inglese ha preso il sopravvento e la lingua italiana scomparirà in poco tempo ma, con lei, anche tutta la sua poesia, come l’originalità che distingueva il nostro paese. Salvo in qualche caso, oggi la ricerca artistica maschile o femminile, è praticamente uniforme. Però, nonostante tutto, qualche remora ancora c’è; un pensiero così stupido e limitato da farmi veramente arrabbiare. Infatti, parlando delle poche artiste che utilizzano un linguaggio espressivo lontano dai merletti di pizzo, a volte sento il commento che queste ‘vorrebbero imitare i maschi’, scegliendo il peso di materiali duri. Ma questa, credo, essere una questione d’intelligenza e di cultura perché, prima di giudicare una scelta operativa, si dovrebbe analizzare innanzitutto la poetica del lavoro, capirne i contenuti e quindi il perché di quel dato materiale e non di un altro. In tutti i modi, mi pare un’assurdità che mi fa sorridere, il fatto che ancora oggi si possa pensare che esistano lavori adatti per i maschi ed altri adatti per le femmine. Un po’ da terzo mondo».
Le sue opere sono prevalentemente di grande formato ovvero monumentali, oltre ad essere realizzate in materiali pesanti, come ferro e cemento. Un lavoro piuttosto impegnativo per una donna, o no?
«Mio padre mi ha sempre detto che i maschi e le femmine sono uguali e quindi quello che manualmente sa fare un uomo lo può fare anche una donna e, per questo, non mi sono mai fatta problemi di tipo pratico. Ho semplicemente voluto sperimentare dei materiali e delle tecniche che mi incuriosivano e che mi davano la possibilità di costruire nella realtà le forme nate dentro alla mia testa, in un bellissimo passaggio dalla leggera trasparenza dell’idea alla pesante presenza della materia. Ma la cosa curiosa è che mentre nel mio immaginario, durante le fasi del concepimento, intuisco le forme cogliendone il peso quando, invece, le vedo realizzate mi appaiono leggere come piume, anche se pesano dei quintali. Comunque, se la sua domanda sottintende che per una donna può essere faticoso, le confermo di sì. Ma le confermo anche che lo sarebbe altrettanto per un uomo. D’altra parte le mie forme possono sì, funzionare piccole, ma nascono per essere da esterni, monumentali perché abitabili, strutture in cui entrare e per questo devono essere per forza stabili, realizzate con materiali resistenti agli urti e adeguati alle intemperie».
Lei ha scelto di esprimersi con materiali nettamente diversi dalla terracotta, nonostante sia una faentina doc e Faenza una delle massime eccellenze a livello internazionale nel campo dell'arte ceramica. Quali i motivi di questa sua scelta?
«E’ solo un problema tecnico. Inizialmente ho anche lavorato con l’argilla, poichè le costruzioni tridimensionali di allora richiedevano un materiale plastico come lei. A volte lasciavo le sculture crude, in quanto l’idea dell’oggetto precario le avvicinava maggiormente alla realtà umana. Alla fine degli anni ’70 costruivo dei percorsi facendo stampi in gesso sulle formazioni argillose dei calanchi faentini. A quel tempo il mio lavoro era legato, in parte alla Land Art, in parte all’Arte Narrativa francese o all’Antropologica. Con questi lavori nel 1978 partecipai anche ad un Concorso Internazionale della Ceramica di Faenza e, nel 1979, a Fagnano Olona Varese con la collettiva “L’uso creativo della ceramica”. Successivamente ho utilizzato la pietra arenaria e la pirofila con fanghi colorati. In un secondo tempo, invece, ho unito alla terracotta il cemento colorato oppure il ferro. Man mano, nel tempo, il mio lavoro ha preso una piega sempre più essenziale e, la terracotta, non poteva darmi quel tipo di risultato formale, soprattutto per le grandi dimensioni e anche per via dei ritiri in essiccamento. Questo fu il motivo per cui la lasciai da parte ed iniziai ad usare principalmente il cemento colorato, nero o blu. Poi, data la fragilità del cemento, sono passata prevalentemente al ferro, con il quale posso tranquillamente realizzare sculture di grande dimensione muovendole senza problemi con i carri ponte o le carrucole. Non è detto che prima o poi non torni ad usare l’argilla, come pure la pietra».
Oblò 1986 terracotta e cemento nero h.cm.145
Quali i moventi artistici ed esistenziali della sua arte. Quale la poetica che fa da filo conduttore al suo lavoro e che maggiormente lo caratterizza?

«Dal 1980 la mia ricerca si è orientata soprattutto verso lo spazio tridimensionale, forse per il bisogno di entrare fisicamente dentro all’opera. Una proprietà, questa, che la pittura non poteva offrirmi. L’imponenza architettonica dell’antica “Geometria Sacra”, la cui solidità ben piantata a terra pare mettere radici, mi ha da sempre affascinata. Quelle architetture così pesanti, erette all'eternità, appaiono però pronte a volare, così matematicamente universali, così luoghi di visione spuntati dal tessuto del nulla, entrano in perfetta sintonia con lo spazio e sembrano già essere esistite prima ancora della loro costruzione, materializzando il trasparente. Questa lezione antica è stata il mio primo punto di riferimento; l’inizio da cui partire. Nella mia ricerca la scrittura ha sempre accompagnato in parallelo la costru- zione degli spazi. Parlo di spazi perché non concepisco la scultura in quanto corpo da guardare ma in quanto luogo in cui entrare; istintiva proiezione dell'immaginario costituita da precise leggi numeriche, le stesse che plasmano anche le più semplici manifestazioni naturali. La scultura, quindi, non come possibile architettura nello spazio ma come possibile architettura dello spazio, quasi a ripercorrere i tragitti intangibili della struttura cosmica della quale, ovviamente, l'essere umano ne è parte integrante. Considero le mie poesie 'disegni scritti', una sorta di appunti utili per la costruzione interiore delle forme. Non sono, quindi, forme con un significato ma forme pensanti, animate da una vita propria racchiusa nel loro interno, come ci fosse un cuore nascosto. Il mio è stato un percorso solitario, in una dimensione simile a quella del bosco, dove la tana è il rifugio sicuro, fatto di silenzio e di oscurità. L’essenziale formale non rappresenta, per me, un concetto minimalistico riduttivo ma, al contrario, manifesta il valore fondamentale della struttura stessa nella sua essenza pura di forza vitale, ripulita da ogni fronzolo decorativo; un’inutile deviante aggiuntivo».
Che ne pensa delle arti visive di oggi. Le tecnologie che avanzano sono utili a sollecitare la creatività artistica o invece, come pensano molti suoi colleghi e maestri del 900, rischiano di diventare al contrario strumenti di appiattimento e massificazione dell'arte?
«Sicuramente anche quando fu inventata la fotografia ebbero da polemizzare sul lavoro degli impressionisti o dei divisionisti e così via di fronte ad ogni innovazione o scoperta. Tutto dipende dal modo in cui si usa una tecnologia e, per quello che mi riguarda, mi sento molto aperta anche verso quel tipo di linguaggio che mi incuriosisce sin dagli anni ’80 purchè, però, non venga utilizzato come effetto speciale per sbalordire o per creare giochini per la massa sempre più attirata dalla ‘trovatina’ del momento. Insomma tutto dipende dal come si utilizza una tecnologia e dai contenuti delle proposte. Delle arti visive di oggi preferirei, comunque, non entrare in merito anche perché è tutto soggettivo».
A cosa sta lavorando in questo periodo?
«Sono in meditazione, mi trovo in una bolla di calma piatta interessante. Sto riguardando altri materiali e mezzi che ave- vo lasciato in sospeso da molto tempo».