Les fleurs et les raisins. Trasversali allegagioni d’arte. “GAROFANATA! CHI ERA COSTUI?”

Di Alberto Gross
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Con le sue oltre cinquecento varietà registrate l’Italia è sicuramente tra i Paesi a possedere e coltivare il più alto numero di vitigni autoctoni adatti alla produzione di vino.
Così non è raro - anche per assaggiatori seriali e professionisti - scovare ogni tanto alcune piccole perle nascoste e ritrovate e restarne sorpresi ed entusiasti, al pari del bibliofilo che riscopre il vecchio in-quarto di un’edizione a lui sconosciuta.
È capitato, a noi, con il vitigno Garofanata, la cui origine e storia rimangono ancora prevalentemente offuscate dalle ombre del mistero e dell’incertezza: autoctono della regione Marche, viene attestato in un documento del 1875 redatto dalle commissioni ampelografiche istituite dopo l’unità d’Italia.
Ritenuto inizialmente una varietà di Moscato - ancora negli anni sessanta l'ampelografo marchigiano Bruni lo cita come “Garofalata” o “Moscato Bastardo” - analisi molecolari successive ne hanno tuttavia escluso l’appartenenza a tale famiglia. Ritrovato casualmente da alcuni agronomi di una cantina cooperativa nel territorio di Corinaldo e salvato da una probabile estinzione dall'impegno dell’ASSAM - Agenzia Servizi Settore Agroalimentare delle Marche - oggi può contare sopra una modesta e ancora sperimentale diffusione (la sua iscrizione al Registro Nazionale delle Varietà di Vite è del 2012) in tutto il comprensorio dei Castelli di Jesi.

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Precoce nelle prime fasi vegetative e più lento nel corso della stagione, si è finora dimostrato di facile adattamento e di buona costanza produttiva; fornisce inoltre ottimi risultati nelle annate molto calde riuscendo ad accumulare zuccheri senza disperdere acidità, qualità che sarà sempre più necessaria negli anni a venire.
Abbiamo assaggiato la versione Charmat Extra-dry di Castrum Morisci, piccola realtà situata a Moresco, in provincia di Fermo: su terreni collinari tra i 180-220 metri sul livello del mare a medio impasto, con prevalenza di argilla, le uve vengono vendemmiate a mano con rese che non superano gli 80 quintali per ettaro. Dopo la decantazione statica e la fermentazione in acciaio segue la presa di spuma in piccole autoclavi per circa cinque mesi. Il vino è di un bel giallo carico e si apre inizialmente su note floreali di camomilla, tiglio, acacia; a poco a poco emergono accenni di frutta, mela e pesca, poi nespola e miele. La bollicina è cremosa e sparisce assottigliandosi sul palato, il sorso - teso e nervoso - è sorretto da una acidità e da una sapidità tali da renderlo asciutto e da lasciarci dimenticare la presenza del residuo zuccherino.
Le nuove scoperte destano sempre soddisfazione e meraviglia: ci lascia- mo allora ispirare dalle dolci discese nel sublime che ci regala Saffo e da quel suo frammento ritrovato che ci riconduce in alto, fino a dove “l’infinita mi pare volta del ciel toccare”.