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Mario Puccini “Van Gogh involontario”

Una collezione riscoperta e altri capolavori.
Museo della Città di Livorno.
Dal 2 luglio al 19 settembre 2021.
A cura di Silvana Gatti.

Puccini sta a Fattori, come Van Gogh sta a Cézanne; ed entrambi i due coloristi, Puccini e Van Gogh, tramutano in masse fluide e vibratili i serrati e compatti blocchi dei due costruttori.

[M. Tinti, in Mario Puccini, Firenze, 1931]

Al Museo della Città di Livorno un’importante mostra celebra il centenario della morte di Mario Puccini (Livorno 1869 - Firenze 1920), artista sulla scia dei Macchiaioli definito da Emilio Cecchi nel 1913 un “Van Gogh involontario”. La rassegna è a cura di Nadia Marchioni con il supporto del Comitato scientifico formato da Vincenzo Farinella, Gianni Schiavon e Carlo Sisi. L’esposizione amplia le ricerche avviate in occasione dell’esposizione del 2015 al Palazzo Mediceo di Seravezza.
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L’input della mostra parte dalla riscoperta di una importante collezione di dipinti di Mario Puccini, di cui si vuole celebrare il valore storico e artistico, ponendo al contempo una riflessione su opere mai presentate prima o raramente esposte in passato.
Mario Puccini nasce a Livorno il 28 giugno 1869 da Domenico e da Filomena Andrei, quinto di sei fratelli.
Sin da adolescente ama disegnare e dipingere, contrastato dal padre, fornaio e gestore della trattoria La Bohème di Livorno, che riuscì a garantire ai propri figli un’infanzia abbastanza agiata e la possibilità di studiare. Dopo gli studi tecnici a Livorno, il giovane ottiene l’autorizzazione paterna a frequentare l’Accademia di Belle Arti di Firenze a cui si iscrive nel 1884. Nel 1887 frequenta la Scuola di Figura, Copia dal Vero, presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Nel 1890, dopo aver vinto un concorso bandito dal Ministero della Pubblica Istruzione per la creazione di un metodo di proiezioni ortogonali, consegue il Diploma dell’Accademia e quindi l’abilitazione all’insegnamento del disegno. Nell’autunno del 1893, l’artista subisce un tracollo psicologico che ne causa il ricovero all’ospedale Civile di Livorno, e successivamente, il 4 febbraio 1894, all’Ospedale Psichiatrico San Niccolò a Siena dove, ricoverato per “demenza primitiva”, viene dimesso dagli psichiatri il 5 maggio 1898 e affidato, “non guarito”, alla custodia del padre, permettendogli di riacquistare la libertà.
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Uscito dal manicomio Puccini riprende quasi subito a dipingere, grazie anche al sostegno degli amici pittori (soprattutto Lloyd, Ghiglia, Micheli) e collezionisti (Sforni): fino al 1920, anno della sua morte, l’artista dipinge senza sosta, concentrandosi di frequente su variazioni dei soggetti prediletti, cercando nell’immediatezza di geometrie e colori del mondo esterno un’ancora di salvezza per la propria fragilità interiore. La malattia mentale e l’appassionato utilizzo dei colori accesi hanno contribuito a creare un filo rosso fra la pittura di Puccini e quella di Van Gogh, la cui opera il livornese aveva ammirato, assieme a quella di Cézanne, nella collezione fiorentina di Gustavo Sforni, con il quale entrò in contatto nel 1911 grazie all’amico Oscar Ghiglia.
Del periodo che va dall’uscita dal manicomio al 1906, si hanno scarse notizie. Nel 1901 partecipa alla III Esposizione d’Arte di Livorno, con il dipinto Paese-Gabbro; del 1902 è il dipinto Darsena, datato e dedicato a Mario Galli, che esprime già i tratti tipici di quella che sarà in seguito la produzione pittorica dell’artista, dalla salda costruzione plastica dell’immagine entro cui il colore si accende di smalti e vibrazioni, libero da condizionamenti.
Alla morte del padre (1906), essendo la madre già deceduta nel 1901, Puccini decide di dedicarsi definitivamente alla pittura, andando a vivere da solo e guadagnandosi da vivere costruendo aquiloni e marionette per i ragazzi, cifre ed ornati per le ricamatrici, insegne per i negozi. Dopo il 1909 inizia a frequentare il Caffè Bardi, in piazza Cavour, ritrovo degli artisti livornesi per le cui colonne appronta, all’incirca nel 1911, almeno due dipinti ed altrettanti carboncini di grandi dimensioni, su committenza di Ugo Bardi, proprietario del caffè. Da qui l’artista viene apprezzato anche a Firenze grazie a collezionisti e mercanti quali Angelo De Farro, Mario Galli, Ermando Fanfani, Checcucci, Romolo Monti e l’industriale Querci.
Migliorate le sue condizioni economiche, Puccini lascia la bottega in cui abitava per andare a vivere nel fondo che era stato di un ciabattino, al quartiere “Gigante” vicino alla Fortezza Nuova; quindi si trasferisce in Piazza del Cisternone, in un alloggio più accogliente.
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Vive a Livorno traendo ispirazione dalle sue coste e dalla campagna circostante, e nelle sue opere raffigura barconi all’ormeggio, scorci, angoli di paese ma soprattutto l’amata Torre Medicea, ripresa da ogni angolazione. Nel 1910 è documentato un suo primo viaggio a Digne, paese delle Alpi Marittime francesi, e nel 1912 partecipa all’Esposizione di Belle Arti di Livorno, quindi si reca di nuovo a Digne per alcuni mesi, ospite del fratello, dove la sua tavolozza si esprime con tonalità più chiare, meno accese. Nel 1913 e 1914 espone di nuovo a Livorno, Firenze e Roma; nel 1915 è presente con il dipinto Scaricatori alla “Secessione Romana”, nella Sala Internazionale. Durante gli ultimi anni l’Artista dipinge in Maremma, all’aperto e nelle più variabili condizioni atmosferiche, peggiorando il suo precario stato di salute che si aggrava a causa di un’infezione polmonare; ricoverato all’Ospedale Santa Maria Nuova in Firenze, il 17 giugno, muore il giorno seguente, 18 giugno 1920.
Definito come uno dei pochi e rari “fauves” italiani, affascinante colorista, sottovalutato dalla critica, risulta avanguardista nell’uso espressivo e spaziale delle linee pure, riabilitando la funzione coloristica in modo del tutto spontaneo, avvicinandosi all’Espressionismo tedesco che traspose nell’arte i tormenti freudiani dell’inconscio e l’emozione del colore, attraverso l’indagine delle emozioni, per una nuova libertà espressiva. Allo stesso tempo, si affianca alle complesse ricerche di tipo divisionista della Scuola Toscana - rappresentata nei primi anni Novanta da Nomellini, Kienerk, Müller ed Angelo Torchi, quindi da Amedeo Lori e, nei primissimi anni del Novecento, da Benvenuti, Lloyd e Chini - volto a liberare il colore dai riferimenti figurativi.
La collezione esposta in questa mostra delinea lo sviluppo della carriera artistica di Puccini dal suo esordio, a partire dai rari ritratti della fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, in cui si evidenzia il legame con l’ambiente artistico fiorentino di fine secolo e con i maestri Fattori e Lega, alla maturità colorista, così come si manifestò dopo i cinque anni trascorsi negli ospedali di Livorno e Siena. Con oltre cento opere divise in otto sezioni, la mostra è l’occasione per far dialogare i capolavori della citata collezione con una serie di altri selezionati dipinti provenienti da diverse raccolte e da prestigiosi musei come la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e le Gallerie degli Uffizi.
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La prima sezione è dedicata agli esordi di Puccini in ambito tardo ottocentesco, quando in Toscana primeggiavano artisti quali Fattori e Lega; il giovane pittore, a Firenze per studiare all’Accademia accanto all’illustre maestro, esordisce come ritrattista accanto al suo amico Nomellini, suo concittadino. La Bambina che prega, dipinto del 1887, è qui apprezzabile per la sua intensità espressiva.
La seconda sezione documenta il periodo della crisi psichica che portò l’artista ad essere ricoverato, ventiquattrenne, all’ospedale di Livorno ed in seguito al Manicomio di San Niccolò di Siena, dove rimase dal 1893 al 1898; le foto d’epoca, i documenti e i disegni conservati nell’Archivio storico della Asl 7 di Siena documentano la crisi esistenziale che crea un parallelo con il grande Van Gogh, fornendo preziose indicazioni, grazie allo studio delle cartelle cliniche e ad una rara lettera dell’artista al direttore dell’Istituto senese, sugli anni della sua “reclusione”. In questa sezione documentaria sono presenti tre autoritratti dell’artista, eseguiti fra il 1912 e il 1914, che riflettono lo spirito di un uomo sensibilissimo, desideroso di affermare un’immagine pubblica serena e rispettabile, che nasconde una prorompente e anticonvenzionale urgen- za espressiva.
La terza sezione analizza il legame tra Puccini ed il maestro Fattori, sino al superamento del suo insegnamento, favorito dall’influenza europea della pittura in Toscana fra Ottocento e Novecento, quando artisti come Nomellini e Müller si distanziarono artisticamente dall’anziano maestro cercando fuori confine nuove strade fra impressionismo, divisionismo e simbolismo. “Puccini - scrive la curatrice della mostra - rimanendo in qualche modo fedele all’insegnamento di Fattori e al saldo impianto grafico e compositivo dei suoi lavori, fu capace di rinnovarne il messaggio e la forza espressiva esasperandone la sintesi formale e caricando la visione con la potenza del colore, talvolta completamente astratto dalla realtà, come nel caso dei buoi azzurri, evidentemente debitori delle acutezze disegnative del maestro”. Presenti in questa sezione una serie di confronti fra opere di Puccini e di artisti come lui cresciuti sotto il modello fattoriano e vicini all’artista, fra cui Bartolena, Benvenuti, Ghiglia, Ulvi Liegi, Micheli.
La quarta sezione mostra il ritorno alla pittura, da parte di Puccini, dopo il periodo di silenzio della seconda metà degli anni Novanta, in una veste completamente mutata; l’artista non si dedica più allo studio della figura umana, ma spazia nel paesaggio livornese, tra scorci solitari e silenziose marine, messi a confronto, nel Museo della Città, con le fotografie d’epoca, evidenziando l’interpretazione al contempo realistica e visionaria dell’artista. I visitatori della mostra potranno ammirare in particolar modo la resa cromatica della luce, e l’uso del colore che si fa materia, che in alcune opere imita il rilievo e la texture di un muro, mentre in altre riesce a rendere l’idea della salsedine depositata su una corda o una vela.
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Ad inizio Novecento lo stile di Puccini risulta differente rispetto alle opere precedenti, distanziandosi dall’insegnamento di Fattori per giungere ad una matura e personale interpretazione del clima post-impressionista francese, attraverso colori smaglianti che tanto ricordano lo stile vangoghiano. Opere quali La strada nel bosco e Il fienaiolo evocano brillantemente le atmosfere del genio olandese, rese con pennellate arancioni e gialle, che da Millet e Van Gogh scivolano sino al nostro sguardo con lo stile brillante di Puccini per celebrare l’epopea dei campi.
La quinta sezione documenta il fermento culturale della città di Livorno, attraverso due dipinti eseguiti da Puccini raffiguranti Il Lazzaretto di Livorno, uno dei quali eseguito, assieme ad un grande disegno a carboncino, per la decorazione di una sala del Caffé Bardi, ritrovo di intellettuali ed artisti dal 1909. Osservando Il lazzaretto di Livorno balza subito agli occhi il contrasto tra la barca, simbolo di libertà, ed il muro che separa idealmente la libertà dalla reclusione, il tutto sottolineato dalla figura dell’uomo raffigurato di spalle. Il giallo è il colore prevalente ed evoca inevitabilmente alcune opere di Van Gogh mentre il muro riflette lo stile di Fattori. A Puccini ed altri pittori furono commissionate le decorazioni del Caffè di piazza Cavour, di cui si espongono quelle di Renato Natali, Corrado Michelozzi e Gino Romiti, con un delizioso bozzetto per una perduta decorazione di Gastone Razzaguta ed un disegno di Benvenuto Benvenuti che ricorda l’aspetto della sala del locale; un disegno di Puccini eseguito sul cartone intestato del Caffè, in suggestivo confronto con il celebre Ritratto di Aristide Sommati, realizzato da Modigliani su carta intestata del locale durante il suo soggiorno livornese del 1909, completano la sala in cui due grandi artisti livornesi del primo Novecento sono posti a confronto.
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Una sala della mostra è dedicata all’attività grafica dell’artista. Disegni su grande formato raffigurano scorci cittadini, porti, paesaggi, animali, contadini, modelle, mostrando la tecnica eccellente raggiunta dall’artista anche nel tratto di matita e carboncino.
Nella sesta sezione sono esposti diversi paesaggi, da quelli eseguiti a Digne, nelle Alpi Marittime, dove Puccini si reca nel 1910 e nel 1912, a quelli della Versilia e Seravezza, ai dipinti della campagna fra Livorno e Pisa, i dintorni di Castiglioncello, la Maremma. Il percorso prosegue con le opere che raffigurano vari personaggi. Lavoratori, bambini seduti in ozio davanti alla porta di umili abitazioni, contadini. Un mondo fatto di silenzio e di sudore, rallegrato dalle immagini dei bimbi. Nell’ottava sezione è presente una selezione di ritratti e nature morte, queste ultime eseguite in gran numero da Puccini, che dal 1911, grazie anche ad una società per la commercializzazione delle sue opere costituita dagli amici Benvenuti e Pierotti della Sanguigna, comincia ad ottenere un certo successo nelle vendite. Una sezione della mostra evoca Il giardiniere di Van Gogh oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, prima opera dell’artista olandese esposta in Italia, a Firenze, alla Prima Mostra italiana dell’Impressionismo nel 1910, dopo essere stata acquistata a Parigi da Gustavo Sforni, nella cui collezione fiorentina Puccini poté ammirarla durante una documentata visita. L’immagine dell’opera vangoghiana documenta l’evoluzione in senso europeo della pittura pucciniana attraverso l’interpretazione personale della libera pennellata a corpo del- l’olandese, in una serie di capolavori che si avvicinano alle opere di Van Gogh.
Una mostra di sicuro interesse per approfondire la conoscenza di un pittore di grande caratura, presenza importante nella storia dell’arte italiana.