Cristian Ber

In un mondo abitato dalla riproducibilità il confine tra l’originale e la copia viene meno. Si sfaldano i legami che delineano l’unicità dell’opera, che pur tuttavia sopravvive caricandosi di significati altri.
Eppure ancor oggi è possibile, attraverso audacia e ricerca, svincolarsi dall’immobilismo del sempre uguale, raggiungendo anche con l’ausilio della tecnologia l’autentico primigenio.
L’intima ed aulica “Fotopittura dell’anima” di Cristian Ber si configura come un ineguagliabile compendio armonico in cui il farsi emozionale si compenetra all’idillica potenza della natura, sconcertante in tutte le sue modulazioni dominate da quiete o turbolenze. Allo stesso modo il paesaggio da sovraumano ed ancestrale si modula alle esigenze dell’uomo abitandosi di civiltà, che tuttavia appare non in contrasto, bensì in concordanza con l’esistente, quasi che l’artista compiesse un viaggio nel tempo ed oltre il tempo, rendendolo vivido ed immortale e contemporaneamente esistente.
Fernando Pessoa ne “Il libro dell’inquietudine” offre un’intensa riflessione: «È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò, se li immagino, li creo; se li creo, esistono; se esistono, li vedo come gli altri. A che scopo viaggiare? […] Dove altro mi troverei se non dentro me stesso e nel tipo e genere delle mie sensazioni? La vita è ciò che ne facciamo. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo».
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Qualcosa di analogo accade negli orizzonti di Cristian Ber, in cui il raffigurato non è più soltanto il reale, non è più ciò che ognuno simultaneamente e similmente potrebbe carpire con il mezzo foto- grafico o pittorico, ma è qualcosa di sensibilmente profondo, è l’IDEA stessa del paesaggio.
Del resto egli connota sin dal titolo il senso delle sue ideazioni, creando una sorta di neologismo “Aer Mundi” che denota l’intesa evanescenza di questi suggestivi scenari aperti a molteplici interpretazioni. Siano essi panorami catartici sospesi nella rarefazione, meditazioni mistiche, turbinii inconsci, fluttuazioni oniriche, pensieri che alla stregua di nubi si elevano librandosi verso l’etere, hanno una capacità attrattiva senza eguali. Il riguardante ne rimane inebriato, si avvicina all’opera, si immedesima, si confonde e si fonde nelle pieghe dei significativi e significanti universi magmatici.
Il raffigurato che rimanda al noto, si smaterializza assumendo l’astrazione dell’immagine mentale che si ravviva di nuova potenza espressiva.
Nel già citato saggio Fernando Pessoa suggerisce un ragionamento che appare calzante all’estetica di Cristian Ber: «Per dar rilievo ai miei sogni ho bisogno di conoscere in che modo i paesaggi reali e i paesaggi della vita ci sembrano rilevanti. Perché lo sguardo del sognatore non è come lo sguardo di chi guarda le cose. Nel sogno, non è possibile posare lo sguardo sull’aspetto importante e non importante di un oggetto che esiste nella realtà. Il sognatore vede solo il lato importante. La realtà vera di un oggetto è solo una sua parte; il resto è il pesante tributo che esso paga alla materia in cambio di poter esistere nello spazio. In modo simile, nello spazio non c’è realtà per certi fenomeni che nel sogno sono palpabilmente reali. Un tramonto reale è imponderabile e transitorio. Un tramonto di sogno è fisso ed eterno».
Eterni sicuramente sono i paesaggi di Cristian Ber, caratterizzati però dal moto della materia, dalla potenza delle meraviglie del cosmo, che nei loro movimenti fluttuano con la medesima struttura del sogno, dell’immaginato, del vissuto tra noto ed ignoto, poiché in grado di svelarsi ed al contempo di custodire il mistero. Il compito della sua arte è anche quello di lasciare delle visioni inesauribili, in cui l’osservatore si disperde vivendo esperienze uniche, suscitate dall’impatto visivo di ambienti surreali che smuovono le corde dell’immaginazione e del vissuto interiore. Egli intesse un ponte dialogico con il riguardante; lo invita ad immergersi nel paesaggio per vedere o esperire anche quello che non avrebbe mai visto e vissuto.
La fotografia, impressa sulla tela, attraverso l’intervento pittorico, che avviene mediante la tecnica dell’aerografo, diviene sublime immaginifico, accentuato dagli effetti illusionistici delle nubi che creano una dimensione ulteriore. L’evanescenza delle nuvole soffuse ci restituisce l’aria fresca del mattino, la brama della tempesta, la quiete della sera, o il sospiro del tempo trascorso, in essere, oppure in divenire.
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Uno scenario magico in cui le cromie acquisiscono gradazioni struggenti equivalendosi, in quanto ad assonanze espressive, con la poetica di William Turner, che elevò il paesaggio ai moti dell’anima, in cui la luce, divenendo una sorta di entità vivificante, dirompeva dilatandosi tra le cromie. Quella modalità di ritrarre la natura in modo idealistico, connotandola di tattili emozioni, la ritroviamo nell’operato di Cristian Ber, dove mediante la compenetrazione tra il pittorico ed il fotografico, i fenomeni atmosferici si scindono in nebulose soavi. Conformazioni evanescenti ed al contempo turbinose, stati d’animo prorompenti e mutevoli che abitano l’aere. Orchestre di visioni, suoni, modulazioni espressive. Non più il reale ma l’ideale.
Un passo contenuto ne “Le confessioni” di Agostino d’Ippona guida la nostra consapevolezza nella comprensione degli orizzonti di Cristian Ber : «Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose, introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti i prodotti del nostro pensiero, ottenuti amplificando o riducendo o comunque alterando le percezioni dei sensi, e tutto ciò che vi fu messo al riparo e in disparte e che l'oblio non ha ancora inghiottito e sepolto. Quando sono là dentro, evoco tutte le immagini che voglio. Alcune si presentano all'istante, altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano estratte da ripostigli più segreti. Alcune si precipitano a ondate e, mentre ne cerco e desidero altre, balzano in mezzo con l'aria di dire: "Non siamo noi per caso?", e io le scaccio con la mano dello spirito dal volto del ricordo, finché quella che cerco si snebbia e avanza dalle segrete al mio sguardo; altre sopravvengono docili, in gruppi ordinati, via via che le cerco, le prime che si ritirano davanti alle seconde e ritirandosi vanno a riporsi ove staranno, pronte a uscire di nuovo quando vorrò».
Testo critico di Paola Simona Tesio
  • Pubblicato in Rivista
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