“Tra&art”

Molti sono i fattori che entrano in gioco durante il travagliato processo per prendere in considerazione l'acquisto di un quadro. Si passa dal colpo di fulmine immediato alla ponderosa considerazione di effettuare un investimento futuro.
La scena del dramma è più o meno la seguente: vi trovate ad un vernissage, presso una nota galleria d'arte, o forse siete stati trascinati da amici ad una delle tante fiere mercato disseminate lungo il territorio dello Stivale che si svolgono quasi ogni mese.
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Visto uno e poi l'altro dei tanti stand ecco che, inaspettata, appare una visione, un'evocazione dal profondo, un'epifania: siete di fronte a voi stessi, a quell'immagine che meglio di mille parole traduce il vostro essere più interiore. Forme ad altri misteriose che sanno invece parlarvi senza uso della parola. Colori e tonalità che meglio di ogni altra in natura sa commuovervi e rendervi felici ad un tratto.
Un moto improvviso vi spinge a chiedere il costo di quel talismano, ma ecco, dal fondo dello stand irrompere tempestiva vostra moglie: “Ma caro, bel quadro per carità, ma c'è troppo blu, ce lo vedresti un quadro così blu sopra il nostro divano rosso”?
E non c'è parola di astuto venditore o di loquace critico che potrebbe cambiare le cose. Il quadro rimane blu, il divano rimane rosso, i due non si armonizzano e le donne non cambiano idea.
Dite la verità, quante volte anche voi avete sentito dire che quel quadro proprio non stava bene in salotto, sopra al divano.
E già, perchè il destino di molti quadri è finire sopra ad un divano. Mai il contrario; se no altro per ovvie leggi di gravità. Avete mai sentito dire: “E no, purtroppo quel divano non s'intona col nostro quadro multicolore di Ugo Nespolo, non avete qualcosa di più giocoso”? Chissà, magari accade, ma chissà per quale arcaico motivo, è sempre l'arte a doversi a-dattare all'arredo. Forse perchè quando mettiamo su famiglia non pensiamo subito ad abbellire una parete ma, giustamente, al tavolo, alle sedie, al salotto, al divano e... e adesso come copriamo quella parete bianca sopra al divano? Ci vorrebbe proprio un bel quadretto.
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In Francia lo chiamano “Canapè” perché realizzato in stoffa di canapa. In antichità si usava il termine “Ottomana” in quanto, la tradizione delle lunghe sedute, pare abbia avuto origine mediorientale. Nell'antica Roma regnava il triclinio.
Come ben si vede da quest’immagine, già ai tempi di Roma Imperiale, il divano era luogo di convivialità, di piacere e forse di affari.
Mentre il letto è luogo consacrato all'intimità coniugale, il divano è sempre stato una zona neutra aperta all'incontro.
Molte illustrazioni erotiche settecentesche, mostrano incontri amatoriali svolgersi proprio su divanetti foderati di broccati e velluti.
Come però potete vedere, anche in questa immagine erotica dell'ottocento che ha come coprotagonista il divano, alla parete retrostante, c'è, guarda caso, un quadro. Sembra antico, allora, il sodalizio tra quadro e divano; una complicità che parte da lontano.
Ancora nell'Ottocento e primi del Nove, il divano è rappresentato come luogo del piacere e della sensualità se non quando della sessualità vera e propria.
Sarà per questo che l'inventore del metodo psicanalitico, basato sulla teoria delle pulsioni sessuali, Sigmund Freud, faceva stendere i suoi pazienti proprio su un divano, nel tentativo di portare alla luce lubrichi desiderii incestuosi?
A seguire inserisco un quadro del nipote, Lucian Freud, anch'egli non troppo sano di mente, riproducente il ritratto della “Ispettrice dei sussidi addormentata” questo è il titolo. Il divano sembra qui essere la sintesi del pensiero freudiano...
E pensando a malattia mentale, arte e divani, questa immagine non richiama forse a quella più recente che ritrae la poetessa Alda Merini in bella mostra di sé sul canapè?
Le epoche trascorrono, le abitudini cambiano, ma il divano resta comunque luogo d'elezione del riposo, dello svago, della riflessione e del piacere. Se un tempo sul sofà si trascorrevano ore di piacere sensuale, oggi si trascorrono ore di piacere virtuale: davanti alla tivvù o magari con un computer appoggiato sulle gambe. Anche i Simpson, prìncipi delle serie televisive più amate e durature, testimoni di una cultura piccolo borghese americana, vengono rappresentati comodamente spamparanzati sul divano che, naturalmente, anche quello, vuole la sua corona dipinta affissa alla parete:
Insomma il divano regna e vuole essere elevato a dignità d'opera d'arte, tanto che se non può essere rappresentato, almeno vuole la sua degna corona: un quadro d'autore che ben si accordi con forme e colori.
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Eccolo dunque, trono e Re egli stesso con una degna corona, così come viene rappresentato oggi dai maggiori produttori di divani:    
Dunque l'arte asservita all'arredamento, l'anima asservita alla materia. Si può arrivare al paradosso di vedere un pezzo unico di Fontana da 900.000 euri far da testata ad un divano multiplo di sé stesso da 3.000 euri... Direi che nel quadro della situazione c'è qualcosa che non quadra. Come diceva il critico d'arte Gino Padula: “Quando l'arte è prodotto funzione di un mercato, quella perde ogni valore a tutto vantaggio del prezzo”.
In alcuni casi, poi, si assiste ad una transizione di valore: il divano vuole affrancarsi da questa dipendenza, vuole bastare a sé stesso, si domanda: “Ma perchè non posso essere valorizzato per quello che sono, in fondo anche io sono un'opera d'arte, no”?
E così assistiamo alla transmutazione, il dna dell'arte riconosciuta penetra nel mobile ed il mobile assume su di sé il sacro fuoco divenendo questo:
Abbiamo così ottenuta una mutazione postatomica, un'embricazione il cui risultato è una pessima copia d'autore, un tavolino dove perdere gli occhiali ed un divano tanto scomodo da rendersi inutilizzabile.
Ma perchè, pensa il divano, mi debbo abbassare così tanto da voler essere solo una copia di un'opera d'arte?
Accade così che il divano, per partenogenesi, si automoltiplichi e, quasi dotato di coscienza propria, vada alla conquista della verticalità sino a ieri appannaggio del dipinto e si faccia egli stessi quadro. Non abbiamo più bisogno di tele e cornici, ora. Adesso c'è lui: “Lago”, il divano che alla parete si allaga:
Non c'è che dire, l'idea è buona e sarà anche molto utile in futuro, presso le nostre colonie lunari a scarsa gravitazione.
 Eppure...
di Alimberto Torri
  • Pubblicato in Rivista

“Tra&art”

Grande magazzino stile americano? rigattiere? porta portese? No, design.
Il designer o disegnatore di stile, è quello che deve trovare il giusto mezzo tra bellezza e funzionalità e questo mezzo, lo deve trovare sia per cose piccole come uno spillo, sia per cose grandi come un aereo. Il disegnatore può anche essere inventore; partendo da una forma di eleganza, di ergonomicità o di idroninamicità può, magari per serendipità, giungere alla creazione del nuovo oggetto utile che prima non c'era.
Potremmo anche definire il design come il bello messo al servizio dell’utile. Non si scappa e non s’imbroglia, l’oggetto di design deve essere bello e utile allo stesso tempo. Se l’oggetto è bello, ma inutile o poco funzionale, non è design; al massimo è un esperimento, una prova; al peggio è un fallimento.
Ma per parlare di design bisogna farlo con un disegnatore, così ho preso la macchina e sono andato a trovare uno dei più prolifici e longevi designer italiani: Fabio Lenci.
Questo nome non vi dice nulla? e vasca Teuco? Ecco, lui è l'inventore della famosa vasca-ambiente relax della Teuco.
Prima di partire, però, giusto due dati per farvi capire chi andrò a conoscere. Ingegner Fabio Lenci, leva 1935 ad oggi firma più di 700 brevetti, è stato professore di Product Design presso La Sapienza di Roma, alcuni progetti sono stati esposti al Museum of Modern Art di New York, altri a Pachino, Philadelphia e Monaco di Baviera. Con i suoi prodotti ha rappresentato l'Italia al Word Expo del 1988 a Brisbane, Australia. Premiato col Compasso d'Oro alla carriera nel 2016.
Nel 2001 nasce la Lenci Design, laboratorio di progettazione e prototipazione coadiuvate dal valente operato delle figlie Maela e Juna.
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Roma, Eur, primo pomeriggio. Seguo le indicazioni del navigatore pregustando l'arrivo presso uno delle magnifiche architetture del Piacentini. Parlo troppo presto, mi trovo invece in periferia, su una strada scassata, polverosa e piena di buche. Vuoi vedere che come al solito sto navigatore ha sbagliato strada?
–    Scusi, è da queste parti lo studio Lenci?
–    Sì, è laggiù, in fondo a destra.
In fondo a destra? Beh, male che vada troverò un bagno, magari della Teuco ;-)
Invece trovo un cancello al di là del quale un cartello appoggiato ad un muretto.
Suono, si apre, entro. Lenci mi viene incontro sorridente. Mi accompagna a fare un giro nel laboratorio, poi ci sediamo nel suo studio e inizio a tormentarlo di domande.
–    Me medesimo: Secondo lei il design può essere considerata una forma d'arte?
–    Lenci: No, secondo me il designer è un manipolatore di dati. Raccoglie dati dal mercato, dal-le nuove e più recenti tecnologie, dalla sociologia e anche dagli industriali stessi che poi sceglieranno il prodotto finale. Tutto è finalizzato alla realizzazione del giusto prodotto per quello specifico tempo e quella specifica azienda.
–    Me medesimo in persona: Forse una delle differenze tra arte e design sta anche nel fatto che il compito dell'artista sta nel procedere per introspezioni, prendendo la parte di sé per il tutto sociale, nel tentativo di affrancare l'uomo dall’“Insostenibile leggerezza dell'essere” alleggerendolo dalle sovrastrutture psicosociale (dovrebbe), mentre il designer lavora per la realizzazione di un prodotto meramente commerciale.
–    Lenci: Esattamente.
–    Me medesimo sempre me:  Come ha cominciato?
–    Lenci: Ho avuto la fortuna di avere dalla mia un grande pedagogista: mio padre. Da bambino desideravo un carretto e chiesi i soldi a papà. Lui mi disse che se volevo il carretto non dovevo far altro che costruirmelo. Ecco, direi che ho cominciato così, da quel momento non ho più smesso di inventare e costruire.
(Primi anni Ottanta, prototipi di scooter elettrici a tre ruote con postazione di ricarica dedicata).
–    Sempre me: Come si pensa un oggetto?
–    Lenci: Oltre alla raccolta dei dati di cui le dicevo prima, bisogna riuscire ad immaginare cosa sarà utile in futuro. Bisogna avere le antenne sintonizzate sul cosa sarà e cosa servirà.
–    Me: Cosa pensa che manchi oggi, se manca qualcosa?
–    Lenci: La bottega dell'arte. Manca il luogo dove il maestro insegna all'allievo nella condivisione di spazi e tempi, ed è quello che sto cercando di realizzare con i miei studenti dell'Università. L'Università sforna laureati che però non hanno un'idea di azienda, né un'idea del fare. Qui da me i ragazzi cominciano a capire come si fa impresa.
–    Me: Ma c'è la voglia, nei giovani, di provare, sperimentare, azzardare?
–    Lenci: No, purtroppo no. Hanno paura della novità, di fare impresa, di investire e di rischiare.
E' curioso, penso, viviamo davvero in un'epoca in cui tutto è capovolto: la giustizia, il merito, i diritti, i doveri e adesso sentire che il giovane, il nuovo, ha paura delle novità, mentre Lenci, ragazzo del 1935, ancora oggi si lancia in ardite avventure di sperimentazioni e, dopo aver attraversato con la matita e l'ingegno i più svariati campi dell'industria e aver firmato arredi, sanitari, yacht, poltrone, oggi si lancia, il Lenci, in una nuova avventura: la realizzazione di un idrovolante leggero.
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E guarda caso, non una azienda italiana, ma americana ha già mostrato interesse per questo gioiello della tecnologia e del design.
Lenci ed io ci domandiamo quan-do l'Italia tornerà a dare valore ai suoi figli, a riconoscerne i meriti e a tenerseli cari.
Nell'attesa che ciò accada, restiamo ad esposizione delle più esotiche borse internazionali che da noi vengono per fare spesa.
  • Pubblicato in Rivista
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