I Macchiaioli - Arte italiana verso la modernità
GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea,
Torino - Fino al 24 marzo 2019
di Silvana Gatti
L' autunno ha portato alla GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino - una mostra imperdibile sul movimento dei Macchiaioli, che ripercorre il periodo che va dalla sperimentazione degli anni Cinquanta dell’Ottocento ai capolavori degli anni Sessanta, prestando particolare attenzione alla triangolazione artistica sviluppatasi in quel periodo tra Toscana, Piemonte e Liguria.
La mostra, organizzata e promossa da Fondazione Torino Musei, GAM Torino e 24 ORE Cultura - Gruppo 24 ORE, a cura di Cristina Acidini e Virginia Bertone, con il coordinamento tecnico-scientifico di Silvestra Bietoletti e Francesca Petrucci, vede la collaborazione dell’Istituto Matteucci di Viareggio. Sono oltre 80 le opere esposte, in un affascinante racconto artistico sulla storia del movimento, dalle origini al 1870.
Come spesso è avvenuto nella storia dell'arte, anche la definizione dei Macchiaioli è nata come termine dispregiativo. Apparso sulla “Gazzetta del Popolo”, il 3 novembre 1862, in un articolo che criticava il loro stile, il termine fu adottato di conseguenza dagli artisti del gruppo che intendevano dipingere il vero sostenendo che la natura potesse essere resa con verità attraverso “macchie di colore e chiaroscuro, ciascuna delle quali ha un valore proprio che si misura col mezzo del rapporto”.
Nella seconda metà dell’Ottocento si era alla ricerca di nuovi stili pittorici, ed a Firenze i frequentatori del Caffè Michelangiolo sperimentarono il linguaggio pittorico della ‘macchia’ indirizzando gli artisti verso la mo- dernità. Fu a Torino, nel maggio del 1861, che il nuovo linguaggio pittorico trovò la sua prima affermazione alla Promotrice delle Belle Arti. Nel periodo della proclamazione della città sabauda a capitale del Regno d’Italia, Torino visse una stagione di fermento culturale, ed il 1863 vide la nascita della collezione civica d’arte moderna - l’attuale GAM - che nella sua collezione ottocentesca annovera numerose opere degli artisti di quel periodo.
In questa mostra è interessante la triangolazione tra Antonio Fontanesi, nel bicentenario della nascita, gli artisti piemontesi della Scuola di Rivara (Carlo Pittara, Ernesto Bertea, Federico Pastoris e Alfredo D’Andrade) e i liguri della Scuola dei Grigi (Serafino De Avendaño, Ernesto Rayper), a confronto con le opere di Cristiano Banti, Giovanni Fattori, Telemaco Signorini e Odoardo Borrani, protagonisti di questa cruciale stagione artistica.
Il percorso della mostra inizia a Firenze, dove Giuseppe Bezzuoli, Maestro di Pittura all’Accademia di Belle Arti, di matrice romantica, eseguiva quadri di grandi dimensioni a carattere storico o religioso. Stefano Ussi, suo allievo, nella “Cacciata del duca d’Atene da Firenze” (1854-60) - di cui è esposta una replica - proponeva un dipinto ricco di valori patriottici. Le opere di Enrico Pollastrini e di Antonio Ciseri, anch’essi allievi di Bezzuoli, volgono al purismo, prendendo spunto da opere del Quattrocento. Ne è un esempio l’incompiuto dipinto “I novellatori del Decameron” del Pollastrini, dal disegno nitido che traccia una composizione equilibrata e armoniosa ispirata ai dettami raffaelleschi. Anche nella “Famiglia Bianchini” di Ciseri, presentata nel 1855 all’Esposizione Universale di Parigi, si notano i rimandi ai grandi del passato. Luigi Mussini, avverso al romanticismo storico ed al realismo che si stava diffondendo in tutta Europa, dopo essersi accostato al purismo di matrice tedesca, conobbe Ingres a Parigi e ne rimase influenzato, come si può notare nella posa disinvolta del suo “Autoritratto” esposto. In questo ambito si formarono i futuri sostenitori della “macchia”: allievi di Bezzuoli furono Vito D’Ancona, Giovanni Fattori e Silvestro Lega, che frequentò anche gli studi di Mussini e di Ciseri, presso cui si educò Raffaello Sernesi; Odoardo Borrani fu alla scuola di Pollastrini, mentre Cristiano Banti studiò all’Accademia di Siena, prima di trasferirsi a Firenze nel 1856. Di Banti e di Lega sono esposte le prove accademiche di fine corso, rispettivamente del 1848 e del 1852; di Fattori un’opera dei primi anni Cinquanta in cui appare evidente il rapporto stilistico con il maestro Bezzuoli.
Al Caffè Michelangiolo, aperto nel 1848 in via Larga, si ritrovavano gli artisti ed intellettuali che distanziandosi dal romanticismo si affiancavano al Positivismo. I giovani contestatori della pittura di storia, contrari alle regole accademiche, si interessavano al paesaggio dietro l’esempio di Alexandre Calame, Giuseppe Camino e Francesco Gamba. Dipingevano dal vero anche gli allievi dell’ungherese Carlo Markò, tra cui i suoi figli Andrea e Carlo junior, Serafino e Felice De Tivoli, Lorenzo Gelati ed Emilio Donnini; si unirono al gruppo anche Carlo Ademollo, Nicola La Volpe e Saverio Altamura, ritrovandosi dal 1853 nei dintorni di Staggia presso Siena, per cui, in seguito, questo gruppo di paesaggisti fu denominato “Scuola di Staggia” e riconosciuto come precursore dei macchiaioli. Nel 1855, durante l’Esposizione Universale di Parigi, De Tivoli e Altamura ammirarono le scene realistiche dei “barbizonniers”, oltre ai contrasti chiaroscurali di Alexandre Decamps. Erano entusiasti per le novità anche Filippo Palizzi, Bernardo Celentano e Domenico Morelli, che apprezzava il cromatismo di Paul Delaroche e di Auguste Gendron. Le discussioni al Caffè Michelangiolo spinsero alcuni giovani a dipingere il paesaggio dal vero con l’ausilio dello “specchio nero”, che permetteva di vedere nitidamente i contorni valorizzando i volumi. In parallelo, la pittura di storia fu rinnovata da Cristiano Banti con “Il ritrovamento del corpo di Lorenzino de’ Medici”, dipinto con rapidità bozzettistica.
Il 27 aprile 1859 il Granduca Leopoldo II partiva da Firenze per un esilio senza ritorno: il nuovo corso storico è documentato dal tricolore, protagonista del dipinto di Altamura, esposto in mostra. Il giovane raffigurato nel dipinto è immerso in un'atmosfera trasognata, mentre in una mattina primaverile passeggia sulla collina fiorentina di San Miniato, portando in spalla il tricolore. La visione solenne della basilica e del convento di San Miniato al Monte, che si staglia netta grazie ad un sapiente contrasto di luci e di ombre sul cielo, rivela la ricerca del pittore verso la pittura della “macchia”. Opere chiave dalle decise macchie chiaroscurali sono quelle dipinte dal vero da Fattori alle Cascine, dove erano accampate le truppe francesi dalle vivaci divise. Tocchi decisi di colore, stesi in maniera quasi geometrica, rendono l’immagine dei soldati. Incoraggiato da Nino Costa, al Concorso Ricasoli del 1859 per il tema “Battaglia di Magenta” Fattori presentò due bozzetti dalla fattura rapida e macchiata, che diede il via al nuovo corso del quadro di storia contemporanea.
Nel marzo del 1861 Torino era divenuta capitale del nuovo Regno d’Italia sotto la guida di Vittorio Emanuele II; il 1° maggio, presso l’Accademia Albertina, fu inaugurata l’esposizione della Società Promotrice di Belle Arti, prima affermazione pubblica dei macchiaioli. Fece scalpore il dipinto di Signorini “Il quartiere degli israeliti a Venezia”, di cui in mostra è esposto il bozzetto. Criticato fu anche “Il mattino (Le monachine)” di Cabianca. L’avanzare del pensiero laico risorgimentale vede le figure malinconiche di suore e monache come vittime delle tradizioni religiose, in contrasto con il paesaggio che evoca il pensiero di fuga da un presente disordinato, concetto reso perfettamente dal contrasto luce-nero tipico di questi soggetti. Alla Promotrice del 1861 Antonio Fontanesi esponeva due dipinti e due disegni a carboncino di grande formato, simili a quelli esposti. Il pittore aveva appreso la tecnica del “fusain” a Ginevra, dove risiedeva dal 1850, con risultati eccellenti per morbidezza pittorica e sapienza nelle lumeggiature. Accanto ai fusain, Fontanesi presentava “Il mattino”, paesaggio dall’atmosfera vibrante e ariosa in mostra. Nel 1862, alla Promotrice delle Belle Arti di Torino, Banti acquistò “Un mattino d’ottobre” di Fontanesi, opera in mostra, testimoniando così l’adesione dei macchiaioli ad un nuovo stile.
Diego Martelli, nella sua conversazione sull’arte, riconduceva al 1856 la ricerca di un linguaggio innovativo da parte dei giovani artisti toscani, al fine di raffigurare la realtà distanziandosi dal sentimentalismo romantico. Al Caffè Michelangiolo s’intavolavano vivaci discussioni sul rapporto dell’arte moderna con il Positivismo. Il pensiero positivista fu avallato dagli studi di Jules Jamin, pubblicati sulla “Revue des Deux Mondes” nel 1857 e nel 1859 sulla “Rivista di Firenze”, asserendo come la pittura, basata sull’artificiosità dei colori, permettesse soltanto una trasposizione analogica del visibile. I termini tecnici come macchia, tonalità grigia, pittura a corpo o velatura furono i concetti base della nuova arte, inizialmente resa con forti contrasti tra chiaro e scuro al fine di dare volume alle immagini. Questo stile pittorico fu acquisito da Signorini con Banti, Borrani, Cabianca nella campagna del Valdarno e sulle coste liguri. In seguito, gli stessi artisti proposero la “macchia” quale precisa sintesi cromatica di tasselli accostati secondo rigide ricostruzioni delle varie accidentalità luminose: alla forza dei contrasti luministici e tonali che distinguono quadri come “Bimbi al sole” di Banti, o “Parco Reale” di Vito D’Ancona, essi sostituirono le nette scansioni cromatiche, esito di un’analisi lenta e meditata, di “Tetti al sole” di Sernesi, della “Veduta di San Gimignano” di Abbati, della “Cugina Argia” di Fattori.
Dall’estate del 1861, i macchiaioli, superate le iniziali contestazioni verso la tradizione figurativa, influenzati dai paesaggi di Nino Costa e dai delicati effetti dei dipinti di Fontanesi, dalle scene agresti di Jules Breton di Jules Bastien-Lepage, ricercarono un linguaggio equilibrato e fermo, nuovo e antico a un tempo: fra i risultati più alti di questo momento, i paesaggi dipinti da Sernesi e da Borrani a San Marcello Pistoiese, come “Bovi neri al carro” e “Pastura in montagna” del primo e “La raccolta del grano sull’Appennino” del secondo.
L’Esposizione allestita a Firenze nel settembre 1861 diede ai macchiaioli la possibilità di presentare le loro opere a un vasto pubblico. Giuseppe Abbati espose “Interni della chiesa di San Miniato al Monte”, opera ricca di contrasti luministici e cromatici tra bianco e nero; Cabianca presentò la “Scena medievale”, opera di timbro nostalgico per la cultura e la bellezza cittadine, assediate dalla modernità. Borrani presentò “Il 26 aprile 1859 in Firenze”, ispirato alla pacifica rivoluzione toscana, in cui è raffigurato un ambiente evocativo del passato e nel contempo attuale. Sono questi i soggetti tipici della poetica di Piagentina, la campagna nei pressi di Firenze dove i macchiaioli andavano a dipingere all’indomani dell’Unità, trovando nella quiete la concentrazione utile alla loro ricerca artistica, che richiedeva lunghi tempi di analisi.
Al seguito di Lega, che dipinse opere ispirate dall’atmosfera del villino Batelli, la casa della donna da lui amata, lavorarono a Piagentina Signorini, Abbati, Sernesi, Borrani, Michele Tedesco, Lorenzo Gelati, raffigurando vedute agresti velate di malinconia per il tramonto di quel mondo invaso dal progresso, sentimento palpabile anche nel quadro di Tedesco “Una ricreazione alle Cascine di Firenze”. A Castiglioncello, ospiti di Diego Martelli, i macchiaioli dipinsero vedute evocative di quella natura ancora incontaminata, come testimoniano “La Punta del Romito vista da Castiglioncello” di Sernesi e la “Veduta di Castiglioncello” di Abbati, opere dal formato basso e allungatissimo. Nel 1867 anche Fattori fu a Castiglioncello e vi ritrasse i padroni di casa; quell’anno egli dipinse in sodalizio con Abbati e Borrani, affascinati dall’immagine del carro rosso aggiogato ai buoi bianchi, tema che il pittore avrebbe svolto negli anni a seguire in capolavori assoluti, fra i quali “Bovi al carro”.
La mostra torinese prosegue con la Scuola di Rivara. La prima citazione dei pittori che dipingevano i paesaggi intorno a Rivara, nei pressi di Ivrea, fu nel luglio del 1872 sulla rivista torinese “L’Arte in Italia”: Giovanni Camerana, nel recensire la mostra della Promotrice, esaltò il cenacolo di pittori che si ritrovavano nella cittadina - i piemontesi Vittorio Avondo ed Ernesto Bertea, i liguri Ernesto Rayper e Alberto Issel, il portoghese Alfredo d’Andrade e lo spagnolo Serafín Avendaño, apprendisti presso il paesaggista romantico Alexandre Calame a Ginevra, dove avevano conosciuto Antonio Fontanesi, che li aveva indirizzati verso la pittura della scuola di Barbizon. Nel 1861 d’Andrade andava a dipingere in Savoia e nel Delfinato, insieme a Bertea e, probabilmente, a Rayper, e conobbe Carlo Pittara a Nervi: si ponevano così le basi di un’amicizia che condusse a Rivara non solo lui, ma anche gli altri liguri. Nel 1862 d’Andrade era a Roma dove aveva già soggiornato Avondo, di cui è esposto “Il Teverone”.
Nell’autunno del 1863 d’Andrade, Rayper e Avendaño dipingevano nei dintorni di Carcare, presso Savona, guidati da Tammar Luxoro, che nel 1856 aveva conosciuto Antonio Fontanesi. Il clima amichevole delle loro sedute all’aperto è documentato dalla tela “I pittori di Rayper”. Molto bello, in questa sezione, il tramonto di Fontanesi “La sera. Veduta del Ponte di Santa Trinita e del ministero della Marina”, presentato nel 1867 alla Promotrice fiorentina; “Mercato vecchio di Firenze”, sempre di Fontanesi, immerge il visitatore nell’atmosfera di un tempo, in cui Fontanesi fu ospite di Banti per un breve periodo, interrotto dalla nomina del pittore reggiano all’Istituto di Belle Arti di Lucca nel 1868 e, l’anno seguente, all’ Accademia Albertina di Torino, dove per lui fu aperta la cattedra di pittura di paesaggio.
La pittura di macchia dei toscani è documentata dagli intensi effetti luminosi del “Casolare biellese” di Ernesto Bertea, mentre “In cerca di legna” di Rayper rappresenta la ricerca dei liguri, attraverso una tavolozza di verdi e grigi. Nell’onorare la memoria di Rayper, scomparso prematuramente nel 1873, Signorini nobilitò con l’appellativo di “scuola” l’esperienza artistica di Rivara.
Fra i pittori di Piagentina, Adriano Cecioni predilige soggetti semplici del quotidiano, che, stilizzati ed inseriti in una prospettiva alterata, creano un’atmosfera sospesa. Anche in “Novembre” di Signorini, l’uso sapiente delle luci suggerisce l’atmosfera piovosa e il virtuosismo prospettico amplifica la desolazione della scena.
Questi concetti estetici erano sostenuti dal “Gazzettino delle Arti del Disegno”, la rivista fondata da Diego Martelli nel 1867 per promuovere l’apertura della cultura figurativa locale verso l’arte europea contemporanea. Signorini ne fu il collaboratore più autorevole, con contributi in cui sosteneva l’importanza del paesaggio, privo di contenuti didascalici, e lasciava spazio alla ricerca dei contenuti, talvolta scelti per il loro aspetto anticonvenzionale: nella Sala delle agitate al Bonifacio di Firenze, da lui dipinto nel 1865, la rappresentazione realistica di personaggi in un manicomio è di timbro documentaristico.
La sensibilità nel “tradurre il vero attraverso il sentimento degli antichi”, come diceva Diego Martelli, è tipica dei macchiaioli: Cristiano Banti aderisce alla metrica classica quando dipinge “In via per la chiesa”, nel quale donne e bambine procedono lentamente sotto la luce intensa del sole pomeridiano; ma nel dipinto è evidente anche l’influenza per Jules Breton e Jules Bastien-Lepage, ammirati nel viaggio a Parigi del 1861 e resi noti a Firenze dal “Gazzettino” che promuoveva anche l’arte di François Millet, pittore del sociale la cui influenza si nota nelle Macchiaiole di Fattori del 1866. Il paesaggio dei macchiaioli è animato da contadini, buoi o cavalli che lavorano all’unisono, celebrando l’epopea dei campi. Il tema del paesaggio accomuna le ricerche di Fattori, come in Bovi e bifolco in riva all’Arno, del 1870-75, e di Fontanesi, la cui Bufera imminente fu esposta alla Promotrice torinese del 1874.
Per i macchiaioli, come per i pittori piemontesi e liguri che si riunivano a Rivara, Fattori e Fontanesi furono figure di riferimento, per la severa coerenza del loro percorso. Fu da questo orizzonte ampio di sperimentazioni che giunsero gli stimoli più fecondi per consentire all’arte italiana di muovere passi decisivi verso la modernità.
Torino - Fino al 24 marzo 2019
di Silvana Gatti
L' autunno ha portato alla GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino - una mostra imperdibile sul movimento dei Macchiaioli, che ripercorre il periodo che va dalla sperimentazione degli anni Cinquanta dell’Ottocento ai capolavori degli anni Sessanta, prestando particolare attenzione alla triangolazione artistica sviluppatasi in quel periodo tra Toscana, Piemonte e Liguria.
La mostra, organizzata e promossa da Fondazione Torino Musei, GAM Torino e 24 ORE Cultura - Gruppo 24 ORE, a cura di Cristina Acidini e Virginia Bertone, con il coordinamento tecnico-scientifico di Silvestra Bietoletti e Francesca Petrucci, vede la collaborazione dell’Istituto Matteucci di Viareggio. Sono oltre 80 le opere esposte, in un affascinante racconto artistico sulla storia del movimento, dalle origini al 1870.
Come spesso è avvenuto nella storia dell'arte, anche la definizione dei Macchiaioli è nata come termine dispregiativo. Apparso sulla “Gazzetta del Popolo”, il 3 novembre 1862, in un articolo che criticava il loro stile, il termine fu adottato di conseguenza dagli artisti del gruppo che intendevano dipingere il vero sostenendo che la natura potesse essere resa con verità attraverso “macchie di colore e chiaroscuro, ciascuna delle quali ha un valore proprio che si misura col mezzo del rapporto”.
Nella seconda metà dell’Ottocento si era alla ricerca di nuovi stili pittorici, ed a Firenze i frequentatori del Caffè Michelangiolo sperimentarono il linguaggio pittorico della ‘macchia’ indirizzando gli artisti verso la mo- dernità. Fu a Torino, nel maggio del 1861, che il nuovo linguaggio pittorico trovò la sua prima affermazione alla Promotrice delle Belle Arti. Nel periodo della proclamazione della città sabauda a capitale del Regno d’Italia, Torino visse una stagione di fermento culturale, ed il 1863 vide la nascita della collezione civica d’arte moderna - l’attuale GAM - che nella sua collezione ottocentesca annovera numerose opere degli artisti di quel periodo.
In questa mostra è interessante la triangolazione tra Antonio Fontanesi, nel bicentenario della nascita, gli artisti piemontesi della Scuola di Rivara (Carlo Pittara, Ernesto Bertea, Federico Pastoris e Alfredo D’Andrade) e i liguri della Scuola dei Grigi (Serafino De Avendaño, Ernesto Rayper), a confronto con le opere di Cristiano Banti, Giovanni Fattori, Telemaco Signorini e Odoardo Borrani, protagonisti di questa cruciale stagione artistica.
Il percorso della mostra inizia a Firenze, dove Giuseppe Bezzuoli, Maestro di Pittura all’Accademia di Belle Arti, di matrice romantica, eseguiva quadri di grandi dimensioni a carattere storico o religioso. Stefano Ussi, suo allievo, nella “Cacciata del duca d’Atene da Firenze” (1854-60) - di cui è esposta una replica - proponeva un dipinto ricco di valori patriottici. Le opere di Enrico Pollastrini e di Antonio Ciseri, anch’essi allievi di Bezzuoli, volgono al purismo, prendendo spunto da opere del Quattrocento. Ne è un esempio l’incompiuto dipinto “I novellatori del Decameron” del Pollastrini, dal disegno nitido che traccia una composizione equilibrata e armoniosa ispirata ai dettami raffaelleschi. Anche nella “Famiglia Bianchini” di Ciseri, presentata nel 1855 all’Esposizione Universale di Parigi, si notano i rimandi ai grandi del passato. Luigi Mussini, avverso al romanticismo storico ed al realismo che si stava diffondendo in tutta Europa, dopo essersi accostato al purismo di matrice tedesca, conobbe Ingres a Parigi e ne rimase influenzato, come si può notare nella posa disinvolta del suo “Autoritratto” esposto. In questo ambito si formarono i futuri sostenitori della “macchia”: allievi di Bezzuoli furono Vito D’Ancona, Giovanni Fattori e Silvestro Lega, che frequentò anche gli studi di Mussini e di Ciseri, presso cui si educò Raffaello Sernesi; Odoardo Borrani fu alla scuola di Pollastrini, mentre Cristiano Banti studiò all’Accademia di Siena, prima di trasferirsi a Firenze nel 1856. Di Banti e di Lega sono esposte le prove accademiche di fine corso, rispettivamente del 1848 e del 1852; di Fattori un’opera dei primi anni Cinquanta in cui appare evidente il rapporto stilistico con il maestro Bezzuoli.
Al Caffè Michelangiolo, aperto nel 1848 in via Larga, si ritrovavano gli artisti ed intellettuali che distanziandosi dal romanticismo si affiancavano al Positivismo. I giovani contestatori della pittura di storia, contrari alle regole accademiche, si interessavano al paesaggio dietro l’esempio di Alexandre Calame, Giuseppe Camino e Francesco Gamba. Dipingevano dal vero anche gli allievi dell’ungherese Carlo Markò, tra cui i suoi figli Andrea e Carlo junior, Serafino e Felice De Tivoli, Lorenzo Gelati ed Emilio Donnini; si unirono al gruppo anche Carlo Ademollo, Nicola La Volpe e Saverio Altamura, ritrovandosi dal 1853 nei dintorni di Staggia presso Siena, per cui, in seguito, questo gruppo di paesaggisti fu denominato “Scuola di Staggia” e riconosciuto come precursore dei macchiaioli. Nel 1855, durante l’Esposizione Universale di Parigi, De Tivoli e Altamura ammirarono le scene realistiche dei “barbizonniers”, oltre ai contrasti chiaroscurali di Alexandre Decamps. Erano entusiasti per le novità anche Filippo Palizzi, Bernardo Celentano e Domenico Morelli, che apprezzava il cromatismo di Paul Delaroche e di Auguste Gendron. Le discussioni al Caffè Michelangiolo spinsero alcuni giovani a dipingere il paesaggio dal vero con l’ausilio dello “specchio nero”, che permetteva di vedere nitidamente i contorni valorizzando i volumi. In parallelo, la pittura di storia fu rinnovata da Cristiano Banti con “Il ritrovamento del corpo di Lorenzino de’ Medici”, dipinto con rapidità bozzettistica.
Il 27 aprile 1859 il Granduca Leopoldo II partiva da Firenze per un esilio senza ritorno: il nuovo corso storico è documentato dal tricolore, protagonista del dipinto di Altamura, esposto in mostra. Il giovane raffigurato nel dipinto è immerso in un'atmosfera trasognata, mentre in una mattina primaverile passeggia sulla collina fiorentina di San Miniato, portando in spalla il tricolore. La visione solenne della basilica e del convento di San Miniato al Monte, che si staglia netta grazie ad un sapiente contrasto di luci e di ombre sul cielo, rivela la ricerca del pittore verso la pittura della “macchia”. Opere chiave dalle decise macchie chiaroscurali sono quelle dipinte dal vero da Fattori alle Cascine, dove erano accampate le truppe francesi dalle vivaci divise. Tocchi decisi di colore, stesi in maniera quasi geometrica, rendono l’immagine dei soldati. Incoraggiato da Nino Costa, al Concorso Ricasoli del 1859 per il tema “Battaglia di Magenta” Fattori presentò due bozzetti dalla fattura rapida e macchiata, che diede il via al nuovo corso del quadro di storia contemporanea.
Nel marzo del 1861 Torino era divenuta capitale del nuovo Regno d’Italia sotto la guida di Vittorio Emanuele II; il 1° maggio, presso l’Accademia Albertina, fu inaugurata l’esposizione della Società Promotrice di Belle Arti, prima affermazione pubblica dei macchiaioli. Fece scalpore il dipinto di Signorini “Il quartiere degli israeliti a Venezia”, di cui in mostra è esposto il bozzetto. Criticato fu anche “Il mattino (Le monachine)” di Cabianca. L’avanzare del pensiero laico risorgimentale vede le figure malinconiche di suore e monache come vittime delle tradizioni religiose, in contrasto con il paesaggio che evoca il pensiero di fuga da un presente disordinato, concetto reso perfettamente dal contrasto luce-nero tipico di questi soggetti. Alla Promotrice del 1861 Antonio Fontanesi esponeva due dipinti e due disegni a carboncino di grande formato, simili a quelli esposti. Il pittore aveva appreso la tecnica del “fusain” a Ginevra, dove risiedeva dal 1850, con risultati eccellenti per morbidezza pittorica e sapienza nelle lumeggiature. Accanto ai fusain, Fontanesi presentava “Il mattino”, paesaggio dall’atmosfera vibrante e ariosa in mostra. Nel 1862, alla Promotrice delle Belle Arti di Torino, Banti acquistò “Un mattino d’ottobre” di Fontanesi, opera in mostra, testimoniando così l’adesione dei macchiaioli ad un nuovo stile.
Diego Martelli, nella sua conversazione sull’arte, riconduceva al 1856 la ricerca di un linguaggio innovativo da parte dei giovani artisti toscani, al fine di raffigurare la realtà distanziandosi dal sentimentalismo romantico. Al Caffè Michelangiolo s’intavolavano vivaci discussioni sul rapporto dell’arte moderna con il Positivismo. Il pensiero positivista fu avallato dagli studi di Jules Jamin, pubblicati sulla “Revue des Deux Mondes” nel 1857 e nel 1859 sulla “Rivista di Firenze”, asserendo come la pittura, basata sull’artificiosità dei colori, permettesse soltanto una trasposizione analogica del visibile. I termini tecnici come macchia, tonalità grigia, pittura a corpo o velatura furono i concetti base della nuova arte, inizialmente resa con forti contrasti tra chiaro e scuro al fine di dare volume alle immagini. Questo stile pittorico fu acquisito da Signorini con Banti, Borrani, Cabianca nella campagna del Valdarno e sulle coste liguri. In seguito, gli stessi artisti proposero la “macchia” quale precisa sintesi cromatica di tasselli accostati secondo rigide ricostruzioni delle varie accidentalità luminose: alla forza dei contrasti luministici e tonali che distinguono quadri come “Bimbi al sole” di Banti, o “Parco Reale” di Vito D’Ancona, essi sostituirono le nette scansioni cromatiche, esito di un’analisi lenta e meditata, di “Tetti al sole” di Sernesi, della “Veduta di San Gimignano” di Abbati, della “Cugina Argia” di Fattori.
Dall’estate del 1861, i macchiaioli, superate le iniziali contestazioni verso la tradizione figurativa, influenzati dai paesaggi di Nino Costa e dai delicati effetti dei dipinti di Fontanesi, dalle scene agresti di Jules Breton di Jules Bastien-Lepage, ricercarono un linguaggio equilibrato e fermo, nuovo e antico a un tempo: fra i risultati più alti di questo momento, i paesaggi dipinti da Sernesi e da Borrani a San Marcello Pistoiese, come “Bovi neri al carro” e “Pastura in montagna” del primo e “La raccolta del grano sull’Appennino” del secondo.
L’Esposizione allestita a Firenze nel settembre 1861 diede ai macchiaioli la possibilità di presentare le loro opere a un vasto pubblico. Giuseppe Abbati espose “Interni della chiesa di San Miniato al Monte”, opera ricca di contrasti luministici e cromatici tra bianco e nero; Cabianca presentò la “Scena medievale”, opera di timbro nostalgico per la cultura e la bellezza cittadine, assediate dalla modernità. Borrani presentò “Il 26 aprile 1859 in Firenze”, ispirato alla pacifica rivoluzione toscana, in cui è raffigurato un ambiente evocativo del passato e nel contempo attuale. Sono questi i soggetti tipici della poetica di Piagentina, la campagna nei pressi di Firenze dove i macchiaioli andavano a dipingere all’indomani dell’Unità, trovando nella quiete la concentrazione utile alla loro ricerca artistica, che richiedeva lunghi tempi di analisi.
Al seguito di Lega, che dipinse opere ispirate dall’atmosfera del villino Batelli, la casa della donna da lui amata, lavorarono a Piagentina Signorini, Abbati, Sernesi, Borrani, Michele Tedesco, Lorenzo Gelati, raffigurando vedute agresti velate di malinconia per il tramonto di quel mondo invaso dal progresso, sentimento palpabile anche nel quadro di Tedesco “Una ricreazione alle Cascine di Firenze”. A Castiglioncello, ospiti di Diego Martelli, i macchiaioli dipinsero vedute evocative di quella natura ancora incontaminata, come testimoniano “La Punta del Romito vista da Castiglioncello” di Sernesi e la “Veduta di Castiglioncello” di Abbati, opere dal formato basso e allungatissimo. Nel 1867 anche Fattori fu a Castiglioncello e vi ritrasse i padroni di casa; quell’anno egli dipinse in sodalizio con Abbati e Borrani, affascinati dall’immagine del carro rosso aggiogato ai buoi bianchi, tema che il pittore avrebbe svolto negli anni a seguire in capolavori assoluti, fra i quali “Bovi al carro”.
La mostra torinese prosegue con la Scuola di Rivara. La prima citazione dei pittori che dipingevano i paesaggi intorno a Rivara, nei pressi di Ivrea, fu nel luglio del 1872 sulla rivista torinese “L’Arte in Italia”: Giovanni Camerana, nel recensire la mostra della Promotrice, esaltò il cenacolo di pittori che si ritrovavano nella cittadina - i piemontesi Vittorio Avondo ed Ernesto Bertea, i liguri Ernesto Rayper e Alberto Issel, il portoghese Alfredo d’Andrade e lo spagnolo Serafín Avendaño, apprendisti presso il paesaggista romantico Alexandre Calame a Ginevra, dove avevano conosciuto Antonio Fontanesi, che li aveva indirizzati verso la pittura della scuola di Barbizon. Nel 1861 d’Andrade andava a dipingere in Savoia e nel Delfinato, insieme a Bertea e, probabilmente, a Rayper, e conobbe Carlo Pittara a Nervi: si ponevano così le basi di un’amicizia che condusse a Rivara non solo lui, ma anche gli altri liguri. Nel 1862 d’Andrade era a Roma dove aveva già soggiornato Avondo, di cui è esposto “Il Teverone”.
Nell’autunno del 1863 d’Andrade, Rayper e Avendaño dipingevano nei dintorni di Carcare, presso Savona, guidati da Tammar Luxoro, che nel 1856 aveva conosciuto Antonio Fontanesi. Il clima amichevole delle loro sedute all’aperto è documentato dalla tela “I pittori di Rayper”. Molto bello, in questa sezione, il tramonto di Fontanesi “La sera. Veduta del Ponte di Santa Trinita e del ministero della Marina”, presentato nel 1867 alla Promotrice fiorentina; “Mercato vecchio di Firenze”, sempre di Fontanesi, immerge il visitatore nell’atmosfera di un tempo, in cui Fontanesi fu ospite di Banti per un breve periodo, interrotto dalla nomina del pittore reggiano all’Istituto di Belle Arti di Lucca nel 1868 e, l’anno seguente, all’ Accademia Albertina di Torino, dove per lui fu aperta la cattedra di pittura di paesaggio.
La pittura di macchia dei toscani è documentata dagli intensi effetti luminosi del “Casolare biellese” di Ernesto Bertea, mentre “In cerca di legna” di Rayper rappresenta la ricerca dei liguri, attraverso una tavolozza di verdi e grigi. Nell’onorare la memoria di Rayper, scomparso prematuramente nel 1873, Signorini nobilitò con l’appellativo di “scuola” l’esperienza artistica di Rivara.
Fra i pittori di Piagentina, Adriano Cecioni predilige soggetti semplici del quotidiano, che, stilizzati ed inseriti in una prospettiva alterata, creano un’atmosfera sospesa. Anche in “Novembre” di Signorini, l’uso sapiente delle luci suggerisce l’atmosfera piovosa e il virtuosismo prospettico amplifica la desolazione della scena.
Questi concetti estetici erano sostenuti dal “Gazzettino delle Arti del Disegno”, la rivista fondata da Diego Martelli nel 1867 per promuovere l’apertura della cultura figurativa locale verso l’arte europea contemporanea. Signorini ne fu il collaboratore più autorevole, con contributi in cui sosteneva l’importanza del paesaggio, privo di contenuti didascalici, e lasciava spazio alla ricerca dei contenuti, talvolta scelti per il loro aspetto anticonvenzionale: nella Sala delle agitate al Bonifacio di Firenze, da lui dipinto nel 1865, la rappresentazione realistica di personaggi in un manicomio è di timbro documentaristico.
La sensibilità nel “tradurre il vero attraverso il sentimento degli antichi”, come diceva Diego Martelli, è tipica dei macchiaioli: Cristiano Banti aderisce alla metrica classica quando dipinge “In via per la chiesa”, nel quale donne e bambine procedono lentamente sotto la luce intensa del sole pomeridiano; ma nel dipinto è evidente anche l’influenza per Jules Breton e Jules Bastien-Lepage, ammirati nel viaggio a Parigi del 1861 e resi noti a Firenze dal “Gazzettino” che promuoveva anche l’arte di François Millet, pittore del sociale la cui influenza si nota nelle Macchiaiole di Fattori del 1866. Il paesaggio dei macchiaioli è animato da contadini, buoi o cavalli che lavorano all’unisono, celebrando l’epopea dei campi. Il tema del paesaggio accomuna le ricerche di Fattori, come in Bovi e bifolco in riva all’Arno, del 1870-75, e di Fontanesi, la cui Bufera imminente fu esposta alla Promotrice torinese del 1874.
Per i macchiaioli, come per i pittori piemontesi e liguri che si riunivano a Rivara, Fattori e Fontanesi furono figure di riferimento, per la severa coerenza del loro percorso. Fu da questo orizzonte ampio di sperimentazioni che giunsero gli stimoli più fecondi per consentire all’arte italiana di muovere passi decisivi verso la modernità.