Logos Contemporary Art Summertime
Logos è parola infinita, eterna, terribile: infinita perché priva di limiti, eterna perché continuamente mutando rinnova per sempre il suo principio di autoaffermazione, terribile perché insondabilmente oscura e indecifrabile. Una mostra d'arte che porti questo titolo dovrà farsi carico di ogni ambivalenza, incontrollabile contraddittorietà, di ogni continuato dissidio ed incoerente ribaltamento di senso, conservando leggerezza di sguardo, maturità percettiva e dolce mistero sognante.
Secondo le dottrine platoniche con il termine “logos” si definiva infatti l'individuazione della differenza, del dettaglio, del segno distintivo che definisce un oggetto nella sua identità, nella sua realtà specifica.
Tra pittura e scultura la mostra si configura come un itinerario a stazioni, a stasimi, molteplici e variegati stimoli in cui riconoscere - di volta in volta - il carattere fondante ed imprescindibile che informa il lavoro di ciascuno degli artisti selezionati.
Ci saranno allora i dipinti di Giuseppe Bedeschi e quel profumo di mare che si sente da lontano, le sue barche come gusci vuoti, svuotati, mai abbandonati, piuttosto corazze di chi ha combattuto il tempo e vive con la memoria dei giorni - anche futuri - nell'estrema nostalgia di un viaggio inesausto, viaggio di ritorno, di riandata, frammenti riaffiorati in cui lo stile è l'uomo ed il silenzio umido e livido la contingenza che ne deriva.
Il lavoro di Anna Bonini pare essere sospinto da un soffio che attraversa profondità eterne e riconduce alla pura essenza, trasfigurando il dipinto in uno specchio diafano e sincretico.
Lo spazio ordinato dall'artista è privo di relazioni o contraddizioni, è absolutus, indifferenziato, totalmente altro dall'altro immaginabile. Nei dipinti più riusciti - spesso condotti a livello intuitivo, estemporaneo - l'artista inventa paesaggi interiori fantastici, quasi morfologie psichiche in cui le macchie cromatiche riverberano sonorità che rimbalzano nell'abisso di tempo e luogo: come ipotetici elementi strutturali del cosmo i pensieri si reificano diventando fisici, acquistando un proprio corpo onirico dalla suggestione impalpabile, dai limiti sbriciolati e dispersi.
Con il “Totem” che ha presentato all'interno della mostra, l'artista Tiziana Grandi rivela la propria qualità scultorea introducendoci all'interno di un immaginario primitivo, misterico, di una sacralità intatta e quasi ancestrale. Le forme che si assommano e si stratificano l'una sull'altra paiono la visione tridimensionale di un fossile, improvvisamente staccatosi dal tempo e nel tempo eterno ricondotto.
Forme pure e forme stravolte che sfuggono la narrazione preferendo l'incastro della suggestione: proprio qui – in particolare - risiede la forza della scultura di Tiziana Grandi, nel suo mantenere coerenza formale ed equilibrio estetico ben oltre e al di là di qualsiasi resistenza all'ordinario.
Anche Andrea Simoncini ha presentato una sola opera, pittura che diviene storia per immagini, successive, sincroniche e diacroniche nel medesimo istante: il personale si fonde e si mescola con il collettivo, tutto tenuto insieme attraverso un taglio spiccata- mente metafisico, tra la realtà e la sua percezione. Ci sono - forse - ricordi, vagheggiamenti di luoghi, passaggi, curve in una memoria ipotetica, supposta, percorsa da simbologie che trascinano e dilatano significati, illusioni, enigmi.
L'ebbrezza è allora quella della sciarada, della sfida viva all'intelligenza creativa che smonta e rimonta pezzi di un mosaico infinito, fabbrica di immagini in cui gli ingranaggi cancellano e aggiungono dettagli, particolari che oltrepassano la realtà superandola.
Il simbolico diviene allegoria dalle molteplici possibilità interpretative, tanto più icastiche se risparmiate dall'assoluta lucidità onirica della rappresentazione.
è una pittura abrasa, graffiata, violenta quella di Bice Toni Ferraresi, praticata nell'inciampo, ricondotta nel proprio solco da susseguenti capitolazioni incrinate nella materia, emotività febbrili in cui l'organicità autonoma dell'immagine possibile è concentrazione di spirito, corpo, cuore e colore.
La carne pittorica è lacerata, strappata, sconfitta, poi suturata, rimessa insieme da tratti veloci e appuntiti come spine: la materia brancola, strepita e si dibatte, combatte e si scioglie in rivoli di colore lacrimato in cui la crudeltà violenta si fa filosofica malinconia.
La trama infittisce, si strutturano dinamiche continuamente metamorfiche, intrecciate ad un'ipotesi di espressività difforme, magnetica, magmatica.
Lo spazio è prima perduto, poi riconquistato nella dissimulazione reiterata di tratti pittorici che si assommano, si rincorrono, raggiungono autonomia nel- l'evocatività dell'immagine attraverso un'imponderabile odissea della materia.
Le torri in ceramica dipinta presentate da Bruno Grisolia ci preparano all'ingresso in mondi fantastici, surreali, dove l'immagine si sdoppia e le figure che si ergono diventano quasi busti antropomorfi agghindati ed abbottonati fino al collo: dalle piccole finestre che qua e là occhieggiano l'interno della loro oscurità possiamo immaginare e supporre altre storie, altre vicende, infiniti universi che - come in un gioco di scatole cinesi - si propongono a sfidare la nostra fantasia.
Tutto si produce nella raffinata eleganza del materiale ceramico, autentico protagonista dell'opera che, condotto e plasmato dalle mani dell'artista, ci ricorda quanto sia labile e sottile il confine tra semplicità della materia e sublimazione della stessa.
Le piccole installazioni di Elena Modelli dimostrano la loro massima consuetudine con la stravaganza e l'iperbole: viottoli e crocicchi in cui sarà normale incontrarsi con chiocciole variopinte che ci scrutano curiose, dalle antenne svagatamente vigili, oppure lasciarsi spaventare per un attimo dalle fauci spalancate di coccodrilli colorati e brillanti che si riveleranno ben presto del tutto innocui, quasi gli abituali animali domestici che verrebbero ad accoglierci una volta giunti nell'ipotetico giardino surreale predisposto dall'artista. Un'ipotesi di elevata leggerezza visiva che riconduce alla lezione di grandi nomi del fumetto nostrano come Altan e Jacovitti, passando - obbligatoriamente - attraverso lo specchio di Carroll.
è uno speciale tipo di archeologia del divenire a muovere l'intero lavoro di Maurizio Pilò: l'albero ritratto nei suoi lavori diviene metaforicamente l'insieme delle leggi che regolano l'Universo, catalizzatore e vettore di esperienze plurime e stratificate che rinnovano la propria capacità evocatrice una volta lasciate riaffiorare naturalmente dal magma che ne camuffa la natura, dissimulandone i confini.
L'artista scrive in questo modo storie naturali dalla tattilità visiva estrema, occupate in una radicalità analitica che trasfigura la sua personale memoria - intuitiva ed inconscia - nella mia e nelle nostre suggestioni, sia referenti di un reale vissuto, sia ipoteticamente soltanto vagheggiate.
Il lacerto, lo strappo, la concrezione di colore a riempire l'incavo di un tronco, a macchiare d'oro le dita del cielo non sono che gli incidenti, le contingenze quotidiane, gli insignificanti e fondamentali movimenti del tempo che registrano le differenze dei giorni, le discrasie nel comune spazio dell'agire.
Unico artista a presentare una serie di elaborazioni fotografiche, Liscivia (alias Andrea Tabellini) con il progetto “Nerezza” riflette e si sofferma sull'aspetto effimero del processo artistico, il suo farsi e disfarsi nel tempo sottile di un battito di ciglia, entro il quale cancellazione ed emersione dell'immagine altro non siano che differenti nomenclature di una medesima istanza visiva, praticata ed annullata nella molteplicità sinuosa e liquida dello spazio. Non conosciamo la natura dell'immagine, non sappiamo se stia per sprofondare risucchiata nel gorgo dell'abisso, o se dall'abisso stia per ri-affiorare e rinascere ad altre vite, rinnovate forme ed epifanie: il lavoro di Liscivia si produce allora come un incantesimo, un “ter- tium quid” capace di attivare e moltiplicare linee di forza sconosciute, suggestioni smarrite, visioni perdute.
“La sorte del pensiero” - scriveva Camus nel suo fondamentale saggio su Sisifo “non è più quella di rinunciare a sé stesso, ma di rimbalzare in immagini”: ciò che la pittura di Roberto Tomba ci restituisce, nei suoi colori netti e decisi, nelle sue forme primitive e lineari, prive di incertezze o tentennamenti, non è altro che la visualizzazione di un pensiero, una vivacità di sguardo che trasforma la velocità in movimento, sintesi di ogni profondità e suscettibilità di giudizio.
Per accettare l'arte pittorica di Tomba è necessario avvicinarsi lentamente ed entrare in punta di piedi all'interno di un universo popolato da sogni, miti, suggestioni che trattengono in sé - ad un tempo - l'incanto del mistero ed il tormento per l'ignoto. Tra apocalittico e poetico, la narrazione dell'artista non resta tuttavia fluttuante in una dimensione onirica conchiusa e fine a sé stessa: il dialogo con la realtà, il favoleggiamento fulmineo ed improvviso che si sovrappone al quotidiano è il naturale controcanto di dipinti che nella riflessione filosofica - così come nel risvolto psicologico - trovano una propria, ulteriore collocazione.
Muovendosi nel solco di una naiveté compositiva per alcuni versi affine all'arte scenografica, Giuseppe Scarano individua suggestioni e sintesi visive nello specchio eterno che riflette e divide Sole e Luna: le due entità / divinità, recuperano un certo gusto antico una volta trasfigurate e rappresentate quasi come maschere teatrali, severe e fisse in una loro ieraticità austera, rigorosa senza indulgere nella pesantezza. Sembra di udire voci provenire da dietro quei volti di ornata sobrietà, forse ammonimenti o profezie che ci parlano di un futuro antico, prodotto e ripescato dal ventre eterno della storia dell'uomo e riconsegnato al tempo.
E' una natura contraddittoria, multiforme, carica della naturale vastità che conduce - invariabilmente - ogni aspetto dell'esistente a reificarsi nella scultura di Giovanni Scardovi: il rapporto biunivoco tra le sue teste bifronti - unite e separate nell'opposizione - sono immagine icastica dell'eterno dissidio nel cui seno si nutre, cresce e si produce la storia dell'uomo.
Abita, nella scultura di Scardovi, un'alterità che è respiro d'assoluto, un tutto che oltrepassa le disparità, le diseguali irregolarità per farsi uno, immagine intera di ciò che nasce come frantumabile, diviso, disgregato. La scultura diviene allora costruzione architettonica simbolica (recuperando il significato letterale del greco symballo, getto, metto insieme) che riunisce i contrari, le difformità, le divergenze che vivono all'interno della medesima natura delle cose. Come nel mondo dionisiaco preconizzato da Nietzsche, nella scultura di Scardovi vive una volontà di potenza del creare, distruggere e continuamente ricreare; la visione è un campo aperto di forze in divenire, spazio d'ascolto polifonico in continuo superamento di sé.
Il carattere magico, enigmatico, misterico, con l'intero suo coté grottesco e deforme è sicuramente una delle principali peculiarità della scultura di Mario Zanoni: la deformazione quasi programmatica, l'instabile equilibrio irrequieto, il progressivo dinamico sciogliersi e modellarsi di forme visivamente tattili fanno dell'artista una sorta di Homo Magus, definizione attinente all'idealismo magico di età romantica secondo cui lo spirito è in grado di plasmare e trasformare la materia; in virtù di tale facoltà i pensieri possono diventare cose e le cose pensieri. La scultura si produce in una dimensione ascensionale, quasi sempre per aggiunte, sovrapposizioni, incastri di apparizioni che incombono dalle radici più profonde dell'oscuro buio del mistero. Zanoni procede in una personale e suggestiva mitopoietica visionaria il cui segreto è costantemente sul punto di essere svelato ma resta sempre dissimulato e ancora protetto.
La grammatica dell'ineffabile non offre soluzioni, infittisce il mistero, spariglia i destini, indebolisce le certezze.
Ad impreziosire l'intero percorso espositivo sono stati in mostra anche i lavori di alcuni artisti della Galleria Ess&rrE: Angela Balsamo, Rosy Bianco, Giusy Dibilio, Rita Lombardi, Annalisa Macchione, Davide Tedeschini e Valentina Valente muovendosi per strade differenti, chi seguendo i dettami della scomposizione cromatica del colore, chi prediligendo un particolare tipo di immagine intimista e in sé compresa, chi ancora cercando suggestioni nel magma dell'inconscio, ci invitano all'ascolto dell'immagine, tutti ad accettare ed ampliare la potenza creatrice ed immaginifica del logos.
Alberto Gross
Secondo le dottrine platoniche con il termine “logos” si definiva infatti l'individuazione della differenza, del dettaglio, del segno distintivo che definisce un oggetto nella sua identità, nella sua realtà specifica.
Tra pittura e scultura la mostra si configura come un itinerario a stazioni, a stasimi, molteplici e variegati stimoli in cui riconoscere - di volta in volta - il carattere fondante ed imprescindibile che informa il lavoro di ciascuno degli artisti selezionati.
Ci saranno allora i dipinti di Giuseppe Bedeschi e quel profumo di mare che si sente da lontano, le sue barche come gusci vuoti, svuotati, mai abbandonati, piuttosto corazze di chi ha combattuto il tempo e vive con la memoria dei giorni - anche futuri - nell'estrema nostalgia di un viaggio inesausto, viaggio di ritorno, di riandata, frammenti riaffiorati in cui lo stile è l'uomo ed il silenzio umido e livido la contingenza che ne deriva.
Il lavoro di Anna Bonini pare essere sospinto da un soffio che attraversa profondità eterne e riconduce alla pura essenza, trasfigurando il dipinto in uno specchio diafano e sincretico.
Lo spazio ordinato dall'artista è privo di relazioni o contraddizioni, è absolutus, indifferenziato, totalmente altro dall'altro immaginabile. Nei dipinti più riusciti - spesso condotti a livello intuitivo, estemporaneo - l'artista inventa paesaggi interiori fantastici, quasi morfologie psichiche in cui le macchie cromatiche riverberano sonorità che rimbalzano nell'abisso di tempo e luogo: come ipotetici elementi strutturali del cosmo i pensieri si reificano diventando fisici, acquistando un proprio corpo onirico dalla suggestione impalpabile, dai limiti sbriciolati e dispersi.
Con il “Totem” che ha presentato all'interno della mostra, l'artista Tiziana Grandi rivela la propria qualità scultorea introducendoci all'interno di un immaginario primitivo, misterico, di una sacralità intatta e quasi ancestrale. Le forme che si assommano e si stratificano l'una sull'altra paiono la visione tridimensionale di un fossile, improvvisamente staccatosi dal tempo e nel tempo eterno ricondotto.
Forme pure e forme stravolte che sfuggono la narrazione preferendo l'incastro della suggestione: proprio qui – in particolare - risiede la forza della scultura di Tiziana Grandi, nel suo mantenere coerenza formale ed equilibrio estetico ben oltre e al di là di qualsiasi resistenza all'ordinario.
Anche Andrea Simoncini ha presentato una sola opera, pittura che diviene storia per immagini, successive, sincroniche e diacroniche nel medesimo istante: il personale si fonde e si mescola con il collettivo, tutto tenuto insieme attraverso un taglio spiccata- mente metafisico, tra la realtà e la sua percezione. Ci sono - forse - ricordi, vagheggiamenti di luoghi, passaggi, curve in una memoria ipotetica, supposta, percorsa da simbologie che trascinano e dilatano significati, illusioni, enigmi.
L'ebbrezza è allora quella della sciarada, della sfida viva all'intelligenza creativa che smonta e rimonta pezzi di un mosaico infinito, fabbrica di immagini in cui gli ingranaggi cancellano e aggiungono dettagli, particolari che oltrepassano la realtà superandola.
Il simbolico diviene allegoria dalle molteplici possibilità interpretative, tanto più icastiche se risparmiate dall'assoluta lucidità onirica della rappresentazione.
è una pittura abrasa, graffiata, violenta quella di Bice Toni Ferraresi, praticata nell'inciampo, ricondotta nel proprio solco da susseguenti capitolazioni incrinate nella materia, emotività febbrili in cui l'organicità autonoma dell'immagine possibile è concentrazione di spirito, corpo, cuore e colore.
La carne pittorica è lacerata, strappata, sconfitta, poi suturata, rimessa insieme da tratti veloci e appuntiti come spine: la materia brancola, strepita e si dibatte, combatte e si scioglie in rivoli di colore lacrimato in cui la crudeltà violenta si fa filosofica malinconia.
La trama infittisce, si strutturano dinamiche continuamente metamorfiche, intrecciate ad un'ipotesi di espressività difforme, magnetica, magmatica.
Lo spazio è prima perduto, poi riconquistato nella dissimulazione reiterata di tratti pittorici che si assommano, si rincorrono, raggiungono autonomia nel- l'evocatività dell'immagine attraverso un'imponderabile odissea della materia.
Le torri in ceramica dipinta presentate da Bruno Grisolia ci preparano all'ingresso in mondi fantastici, surreali, dove l'immagine si sdoppia e le figure che si ergono diventano quasi busti antropomorfi agghindati ed abbottonati fino al collo: dalle piccole finestre che qua e là occhieggiano l'interno della loro oscurità possiamo immaginare e supporre altre storie, altre vicende, infiniti universi che - come in un gioco di scatole cinesi - si propongono a sfidare la nostra fantasia.
Tutto si produce nella raffinata eleganza del materiale ceramico, autentico protagonista dell'opera che, condotto e plasmato dalle mani dell'artista, ci ricorda quanto sia labile e sottile il confine tra semplicità della materia e sublimazione della stessa.
Le piccole installazioni di Elena Modelli dimostrano la loro massima consuetudine con la stravaganza e l'iperbole: viottoli e crocicchi in cui sarà normale incontrarsi con chiocciole variopinte che ci scrutano curiose, dalle antenne svagatamente vigili, oppure lasciarsi spaventare per un attimo dalle fauci spalancate di coccodrilli colorati e brillanti che si riveleranno ben presto del tutto innocui, quasi gli abituali animali domestici che verrebbero ad accoglierci una volta giunti nell'ipotetico giardino surreale predisposto dall'artista. Un'ipotesi di elevata leggerezza visiva che riconduce alla lezione di grandi nomi del fumetto nostrano come Altan e Jacovitti, passando - obbligatoriamente - attraverso lo specchio di Carroll.
è uno speciale tipo di archeologia del divenire a muovere l'intero lavoro di Maurizio Pilò: l'albero ritratto nei suoi lavori diviene metaforicamente l'insieme delle leggi che regolano l'Universo, catalizzatore e vettore di esperienze plurime e stratificate che rinnovano la propria capacità evocatrice una volta lasciate riaffiorare naturalmente dal magma che ne camuffa la natura, dissimulandone i confini.
L'artista scrive in questo modo storie naturali dalla tattilità visiva estrema, occupate in una radicalità analitica che trasfigura la sua personale memoria - intuitiva ed inconscia - nella mia e nelle nostre suggestioni, sia referenti di un reale vissuto, sia ipoteticamente soltanto vagheggiate.
Il lacerto, lo strappo, la concrezione di colore a riempire l'incavo di un tronco, a macchiare d'oro le dita del cielo non sono che gli incidenti, le contingenze quotidiane, gli insignificanti e fondamentali movimenti del tempo che registrano le differenze dei giorni, le discrasie nel comune spazio dell'agire.
Unico artista a presentare una serie di elaborazioni fotografiche, Liscivia (alias Andrea Tabellini) con il progetto “Nerezza” riflette e si sofferma sull'aspetto effimero del processo artistico, il suo farsi e disfarsi nel tempo sottile di un battito di ciglia, entro il quale cancellazione ed emersione dell'immagine altro non siano che differenti nomenclature di una medesima istanza visiva, praticata ed annullata nella molteplicità sinuosa e liquida dello spazio. Non conosciamo la natura dell'immagine, non sappiamo se stia per sprofondare risucchiata nel gorgo dell'abisso, o se dall'abisso stia per ri-affiorare e rinascere ad altre vite, rinnovate forme ed epifanie: il lavoro di Liscivia si produce allora come un incantesimo, un “ter- tium quid” capace di attivare e moltiplicare linee di forza sconosciute, suggestioni smarrite, visioni perdute.
“La sorte del pensiero” - scriveva Camus nel suo fondamentale saggio su Sisifo “non è più quella di rinunciare a sé stesso, ma di rimbalzare in immagini”: ciò che la pittura di Roberto Tomba ci restituisce, nei suoi colori netti e decisi, nelle sue forme primitive e lineari, prive di incertezze o tentennamenti, non è altro che la visualizzazione di un pensiero, una vivacità di sguardo che trasforma la velocità in movimento, sintesi di ogni profondità e suscettibilità di giudizio.
Per accettare l'arte pittorica di Tomba è necessario avvicinarsi lentamente ed entrare in punta di piedi all'interno di un universo popolato da sogni, miti, suggestioni che trattengono in sé - ad un tempo - l'incanto del mistero ed il tormento per l'ignoto. Tra apocalittico e poetico, la narrazione dell'artista non resta tuttavia fluttuante in una dimensione onirica conchiusa e fine a sé stessa: il dialogo con la realtà, il favoleggiamento fulmineo ed improvviso che si sovrappone al quotidiano è il naturale controcanto di dipinti che nella riflessione filosofica - così come nel risvolto psicologico - trovano una propria, ulteriore collocazione.
Muovendosi nel solco di una naiveté compositiva per alcuni versi affine all'arte scenografica, Giuseppe Scarano individua suggestioni e sintesi visive nello specchio eterno che riflette e divide Sole e Luna: le due entità / divinità, recuperano un certo gusto antico una volta trasfigurate e rappresentate quasi come maschere teatrali, severe e fisse in una loro ieraticità austera, rigorosa senza indulgere nella pesantezza. Sembra di udire voci provenire da dietro quei volti di ornata sobrietà, forse ammonimenti o profezie che ci parlano di un futuro antico, prodotto e ripescato dal ventre eterno della storia dell'uomo e riconsegnato al tempo.
E' una natura contraddittoria, multiforme, carica della naturale vastità che conduce - invariabilmente - ogni aspetto dell'esistente a reificarsi nella scultura di Giovanni Scardovi: il rapporto biunivoco tra le sue teste bifronti - unite e separate nell'opposizione - sono immagine icastica dell'eterno dissidio nel cui seno si nutre, cresce e si produce la storia dell'uomo.
Abita, nella scultura di Scardovi, un'alterità che è respiro d'assoluto, un tutto che oltrepassa le disparità, le diseguali irregolarità per farsi uno, immagine intera di ciò che nasce come frantumabile, diviso, disgregato. La scultura diviene allora costruzione architettonica simbolica (recuperando il significato letterale del greco symballo, getto, metto insieme) che riunisce i contrari, le difformità, le divergenze che vivono all'interno della medesima natura delle cose. Come nel mondo dionisiaco preconizzato da Nietzsche, nella scultura di Scardovi vive una volontà di potenza del creare, distruggere e continuamente ricreare; la visione è un campo aperto di forze in divenire, spazio d'ascolto polifonico in continuo superamento di sé.
Il carattere magico, enigmatico, misterico, con l'intero suo coté grottesco e deforme è sicuramente una delle principali peculiarità della scultura di Mario Zanoni: la deformazione quasi programmatica, l'instabile equilibrio irrequieto, il progressivo dinamico sciogliersi e modellarsi di forme visivamente tattili fanno dell'artista una sorta di Homo Magus, definizione attinente all'idealismo magico di età romantica secondo cui lo spirito è in grado di plasmare e trasformare la materia; in virtù di tale facoltà i pensieri possono diventare cose e le cose pensieri. La scultura si produce in una dimensione ascensionale, quasi sempre per aggiunte, sovrapposizioni, incastri di apparizioni che incombono dalle radici più profonde dell'oscuro buio del mistero. Zanoni procede in una personale e suggestiva mitopoietica visionaria il cui segreto è costantemente sul punto di essere svelato ma resta sempre dissimulato e ancora protetto.
La grammatica dell'ineffabile non offre soluzioni, infittisce il mistero, spariglia i destini, indebolisce le certezze.
Ad impreziosire l'intero percorso espositivo sono stati in mostra anche i lavori di alcuni artisti della Galleria Ess&rrE: Angela Balsamo, Rosy Bianco, Giusy Dibilio, Rita Lombardi, Annalisa Macchione, Davide Tedeschini e Valentina Valente muovendosi per strade differenti, chi seguendo i dettami della scomposizione cromatica del colore, chi prediligendo un particolare tipo di immagine intimista e in sé compresa, chi ancora cercando suggestioni nel magma dell'inconscio, ci invitano all'ascolto dell'immagine, tutti ad accettare ed ampliare la potenza creatrice ed immaginifica del logos.
Alberto Gross