Nel segno della Musa

Le interviste di Marilena Spataro
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“Ritratti d’artista”
Talenti del XXI secolo
SAMANTHA CASELLA è la regista e sceneggiatrice di I AM BANSKY. Affermatasi sulla scena mondiale con questo suo film su Bansky, il misterioso writer inglese diventato ormai una star dell'arte contemporanea. E sul cui successo la cineasta romagnola immagina una storia diversa da quella ufficiale. Ne viene fuori una vicenda intrigante, dai risvolti torbidi. Un possibile bluff mediatico di portata internazionale.

Ama il suo lavoro, Samantha Casella. Lo ama con semplicità e senza troppa smania di sucesso. Detesta i compromessi. Si interessa di arte, fotografia, immagine, fin da ragazza. Al cinema e alla regia si dedica con professionalità e passione dopo un lungo percorso di studi. Seppure non cercato a tutti i costi, come spesso accade nella contemporaneità, il successo per questa regista faentina, appena quarantenne, arriva, eccome se arriva. Ed è internazionale! Lei stessa ne è tuttora sorpresa. I suoi ultimi due cortometraggi I AM BANKSY, uscito nel 2019, e il recentissimo TO A GOD UNKNOWN, hanno ottenuto una cascata di premi; in totale ben 79 tra il marzo 2019 e il dicembre 2020.
Se li aspettava, Samantha, così tanti riconoscimenti e premi?
«Assolutamente no. Da diversi anni avevo abbandonato la regia ed avevo tanti dubbi e incertezze su come sarebbe stato accolto “I Am Banksy”».
Quali tra i 79 premi ottenuti è di maggiore prestigio e quale quello che le ha dato più gioia?
«Ad oggi I AM BANKSY ha vinto in tutto 15 premi. In questo caso i premi più importanti sono stati di sicuro Best International Short al GOLDEN STATE FILM FESTIVAL (si svolse la premiere al Chinese Theatre, una sala meravigliosa sulla Hollywood Boulevard). Altrettanto importante fu Best International Short al LOS ANGELES THEATRICAL RELEASE COMPETITION & AWARD. Diciamo che I Am Banksy ha vinto quasi tutto a Los Angeles, dove tra l'altro è stato proiettato per un mese in una sala di un cinema a North Hollywood. TO A GOD UNKNOWN ha finora vinto 64 premi. Qui diciamo che è stata cambiata la strategia, oltre agli Stati Uniti è stato presentato molto bene anche in altri Paesi ed i premi si distribuiscono tra USA, India, Brasile, Gran Bretagna, Spagna, Slovacchia, Repubblica Ceca, Francia, Turchia, Israele, Giappone, Germania e pure Italia. I premi più importanti in questo caso sono BEST EXPERIMENTAL SHORT al METROPOLITAN FILM FESTIVAL di New York, al TORONTO SHORT FILM FESTIVAL Best International Short e due premi come BEST FILM SHORT e BEST WOMEN DIRECTOR all’Accolade Global Film Competition a Los Angeles (che nella sua storia ha vincitori poi premiati con Oscar e Golden Globe). Chiedo scusa se mi dilungo riguardo ai premi di To a God Unknown perché pure in India dove ho vinto molti premi alla regia e sempre come miglior corto d’avanguardia (diciamo che Experimental loro lo intendono così), nonostante il Covid, hanno organizzato manifestazioni incredibili in quanto a bellezza. Lo stesso in Brasile.
I Am Banksy 4









Ad ogni modo in questo caso a Los Angeles non ci sono state proiezioni al cinema, ma è stato distribuito su Amazon Video nella sezione Stati Uniti e UK. Per quanto riguarda, invece, il riconoscimento che mi ha resa più felice, sicuramente per I Am Banksy è quello al Golden State Film Festival; è stato talmente inaspettato e si è tenuto in uno scenario talmente fantastico che mi ha emozionata molto. Ogni volta che vincevo a Los Angeles ho provato, comunque, un tuffo al cuore, perché questa città è diventata un po’ la mia “seconda casa”, ma la “prima casa cinematograficamente” parlando, perché non mi sono mai sentita tanto amata, coccolata come nei festival a Los Angeles. Questa sensazione di calore a Los Angeles è continuata anche per To A God Unknown anche se in questo caso la gioia più grande è stata vincere al Metropolitan, forse ancor più che all’Accolade Global Film Competition. Devo ammettere che, seppure i premi non siano così importanti ed io dia veramente a tutto il peso che merita, ossia molto poco, è innegabile che cambino la percezione che gli altri hanno di te, soprattutto negli Stati Uniti».
Cosa ha determinato questo straordinario successo e tutti questi riconoscimenti?
«È sempre difficile capire i motivi che spingono un’opera, fosse pure un cortometraggio, verso tanti riconoscimenti. Riguardandomi indietro, a novembre 2018, quando ho girato “I Am Banksy”, diciamo che erano cambiate molte cose, soprattutto ero cambiata io. Presumo sia una questione di esperienze di vita, di persone con cui mi sono confrontata. Sicuramente l’accoglienza che ho avuto negli Stati Uniti ha innescato questo meccanismo». Che idea si è fatta della personalità di Bansky girando il suo corto. E sul mistero della sua identità cosa ci può dire? «Banksy non è certo il mio modello di artista, o meglio, amo un altro genere di arte. L’idea che mi sono fatta è che sia uno straordinario caso mediatico, un uomo intelligente che parla un linguaggio comprensibile, che si sofferma su problematiche alla portata di tutti, e che il mistero legato alla sua identità sia la sua forza principale».
Al Dio Sconosciuto Photo 65V









Come e quando è nato il suo interesse per la cinepresa e per la regia o forse, come per molti cineasti, è meglio parlare di vera e propria passione?
«Da bambina rimasi colpita da un dialogo su Dio tra un prete e una donna: era un film di Ingmar Bergman, “Luci d’inverno”, così come sempre in giovane età fui catturata da “Taxi Driver” di Martin Scorsese e dalle atmosfere oniriche di David Lynch. La passione, passione per il cinema, per l’arte, per la mitologia, per la fotografia, credo che tutto si sia mescolato insieme e mi abbia spinta in questa direzione. Mi ha sempre affascinato il lato oscuro che abita il cuore e la mente delle persone e poter fissare sullo schermo certe emozioni indefinibili per me è una sfida senza prezzo».
Perché ad oggi la scelta del cortometraggio?
«I cortometraggi fanno parte di quello che considero il mio percorso. Non li ritengo solo gavetta o l’anticamera di un film vero e proprio. Ogni cortometraggio per me è stata come una tappa per conoscermi meglio, per capire qual era la mia direzione come regista, giusta o sbagliata che fosse».
C’è nei suoi progetti il cinema, per intenderci quello del lungometraggio proiettato nelle sale tradizionali?
«Emergenza Covid permettendo, a gennaio dovrei terminare le riprese del mio primo film, “Fall Of Time”. Non so a che circuito sarà destinato, ma diciamo che sì, la magia di una distribuzione seppur minima nelle sale, mi farebbe molto piacere».
In passato, ha spesso ha realizzato la regia di bellissimi documentari d’artista, che, a loro volta, finivano per essere testimonianze artistica a sé; scelta difficile quella di seguire il filone artistico in ambito cinematografico. Quanto quelle esperienze le hanno giovato nella realizzazione dei suoi piu' recenti filmati su artisti o a tema artistico?
«Penso che le esperienze di video e documentari sull’arte, come aver seguito la realizzazione della Via Crucis installata al Pantheon, o la possibilità di conoscere e lavorare su progetti che riguardavano artisti come Federico Severino, Giovanni Scardovi, Sergio Monari e Gianni Bubani, mi abbiano arricchita tantissimo. Queste persone sono state delle guide, dei maestri».
Quali le sue qualità, umane e artistiche che le hanno consentito, nonostante la sua nota allergia a qualsiasi compromesso, di emergere e ad arrivare al successo in un mondo, che come si sa, è oltremodo complesso e con dinamiche abbastanza oscure, come quello del cinema oggi?
«Ho un carattere molto difficile e sono consapevole di aver scelto una strada complicata perché emergere nel mondo del cinema è un’incognita piena di variabili. Non escludo che potrei non arrivare mai al vero successo e che la mia potrebbe essere una parabola destinata ad esaurirsi. La sola cosa che posso dire è che cerco di pormi in modo onesto e professionale e che nonostante non sia mai scesa a compromessi cerco di ascoltare le persone che ho intorno».
A suo avviso il cinema deve essere arte e/o anche mercato?
«Penso che il cinema sia una forma di comunicazione, più che una forma d’arte. Il fatto che io adori Malick o Kubrick non mi impedisce di apprezzare anche commedie frivole o saghe di supereroi. Nel cinema ogni genere ha il diritto di esistere».
Al Dio Sconosciuto Poster 3













Quale il futuro e quale il ruolo che potranno giocare il cinema e le arti visive in generale, in un tempo di grandi mutamenti epocali, come questo che stiamo vivendo?

«Credo che quanto stiamo vivendo ci cambierà irrimediabilmente e che siamo tuttora in un momento storico in cui è impossibile anche solo ipotizzare cosa potrà accadere tra un mese. È strano: questa pandemia ha come amplificato tanti aspetti sociali che partono da lontano. Basta pensare come i cellulari e i social network abbiano già da anni distanziato le persone, spesso mettendole le une contro le altre. È come se la solitudine fosse da tempo una conquista ambita da molti: cenare in una saletta riservata, garantirsi un volo privato, arredarsi una sala cinema in casa e guardare un film attraverso una piattaforma televisiva anziché andare al cinema. Temo questa direzione».
Dopo I Am Bansky, la sua recentissima fatica, To A God Unknown - Al Dio Sconosciuto, sta riscuotendo, come per il precedente lavoro, tantissimo successo e prestigiosi riconoscimenti ufficiali. Pure il tema di questo suo corto non è certo di facile comprensione, in qualche modo enigmatico, legato com’è a una visione del sacro che guarda al ritorno alle origini, agli elementi primordiali. Una visione e sensibilità elitarie molto lontane dall’attuale cultura di massa. Come si spiega allora questo interesse che circonda la sua nuova opera. Non sarà davvero che l’arte anticipa nei suoi artisti più ispirati e visionari il mondo che verrà, suscitandone la percezione a livello di inconscio collettivo?
«Quello che sta accadendo intorno a “To A God Unknown” è incredibile. Abbiamo superato i 60 premi in tutto il mondo e da quasi un anno ricevo messaggi da persone che mi scrivono cosa ha suscitato in loro la visione del cortometraggio. Spesso si tratta di confidenze talmente private che mi lasciano senza parole. È il mio lavoro più intimo e personale, eppure al tempo stesso è quello più universale. Ringrazio immensamente per queste sue considerazioni, la sola cosa che posso dire è che se mi pongo la domanda: cosa vuoi che susciti nello spettatore “To A God Unknown” non mi dico “vorrei che fosse capito”, ma “vorrei che la gente capisse sé stessa tramite alcuni passaggi del corto».
A questo punto, mi sembra d’obbligo chiedere: quali i sogni e i desideri di Samantha Casella per il futuro, e quale il suo augurio all'umanità?
«Può sembrare strano ma non ho sogni che riguardano il cinema. Sogno una casa sulle colline vicino a un bosco con tanti animali, insieme alla persona che amo. Sogno di avere i miei genitori vicini. All’umanità auguro di essere sempre in pace con la propria coscienza, perché penso che ognuno di noi sappia sempre cosa è bene e cosa non lo è».
*Mentre andavamo in stampa To A God Unknown ha vinto il suo 71° premio.