SCHIFANO, la rivoluzione mai finita.

“Mi piacerebbe che qualcuno scrivesse che la mia vita e la mia arte sono molto affiatate, ma non nel senso di una vita da artista, no, questo non basta”
(M. Schifano)
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Classificato fra i migliori in assoluto, spesso in vetta alla classifica. Immortale e secondo alcuni immorale, vulcanico, esplosivo oltre e sopra la media delle genialità vere o presunte. Supremo nel saper rendere l’idea di cosa doveva essere realmente popular per un pubblico internazionale quando l’operazione artistica nasceva da un artista italiano. Sopra le righe, deciso, fragile, indagatore ed appassionato curioso, simbolo a caccia di simboli. Consapevole icona di un periodo irripetibile. Non ingabbiabile negli schemi delle classificazioni dei critici perché unico nella sua singolarità. Amato, popolare, sempre nei discorsi di chi parla di pittura italiana. Questo, e molto altro, è stato Mario Schifano.
Precursore ed attento osservatore dei costumi, Schifano arriva in America negli anni 60. Trova che quel chiasso eccessivo (nulla spiega meglio gli States, lo diceva lui) gli avrebbe reso la vita difficile perché la sua mente fungeva da recettore ed amplificatore delle vicende sociali e cercava contemporaneamente una via comunicativa che, se allora poteva sembrare a molti uno choc, per lui aveva già raggiunto l’obiettivo. Rientrato da quella avventura statunitense, Schifano trova in Italia un vento di cambiamento che gli risultava già superato, avendone intuito le conseguenze ben prima che si verificassero. Materiali, stile, supporti, soggetti e temi passano quasi in secondo piano rispetto alla frenetica voglia di raccontare, di premere sull’acceleratore del concetto senza mai dimenticare quello che era davvero Pop. In fondo e correttamente, il termine è l’abbreviazione di popular e a nessuno come a lui veniva bene la capacità di arrivare col suo linguaggio immediato e spregiudicato a chi non si ferma alla prima occhiata.
Il decennio degli anni 70 e l’inizio degli Ottanta lo trovano in preda ad una fortunata intuizione, l’ennesima. Dettata da una sana indagine quanto dalla percezione effettiva e saggia di non potersi permettere il lusso di confondersi con altri, pur rispettandone il cammino.
Nasce in Schifano una consapevolezza di sé, una maniera di informare i suoi estimatori, già molti allora, come a dir loro “Sono il vostro pittore concettuale, ma rimango Pop e lo so-no più di altri”. Utilizza soggetti come l’albero, la bicicletta, il sole, i primi paesaggi anemici che portano il trittico di colori a smalto composti da un verde acido e un azzurro strafottente a segnare l’alto e il basso delle sue tele anche quando i soggetti erano altri. Il Futurismo rivisitato a colori, il cavallo. A pensarci bene, nulla è più popular. Nulla è più vicino alla gente come ogni suo quadro di quel momento, se fosse stato pensato da chi guarda.
Nasce allora, senza mai più interrompersi, una “visione fimica della vita che gli dà coraggio ed energie”, dice Franco Boni, che di Schifano è, a nostro e non solo nostro avviso, un perfetto narratore.
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Una specie di occhio-telecamera inquadra ed immagazzina, poi riferisce coi teoremi del concettuale e la chiarezza dei riferimenti Pop. Gli Schifano di quel periodo che la storia italiana ricorda come anni di piombo, austerity, grandi proteste, attesa di grandi cambiamenti e che prelude agli anni Ottanta ottimistici e spendaccioni, sono inquadrati attraverso la lente del pittore che sa quanto valore abbia il suo arrivo ad una tappa fondamentale della sua storia. Interventi con materiali come la carta da pacchi (altro elemento più che popular) o fogli da disegno che si moltiplicano, sovrapposti, e fanno da supporto a storiche tele. E poi quella fissazione per il rettangolo arrotondato dello schermo televisivo, raccontato come una lente, stavolta di ingrandimento, attraverso cui passavano e passeranno umane avventure e disavventure.
Un cavalcare il decennio 1975-1985 ricco si di opere, ma soprattutto della certezza di aver raggiunto un obiettivo importante. Non era più, infatti, la riconoscibilità delle sue opere il reale fine. I collezionisti conoscevano Schifano e ne apprezzavano già il lavoro. Ormai gli serviva scrollarsi di dosso quell’aria snob che, creata da altri, lo circondava e non gli apparteneva. Era necessario marcare il territorio in quel momento. Era fondamentale, per Mario Schifano, guardare il proprio orizzonte, che era sconfinato e non perimetrabile, perché lui per primo potesse capire fin dove spingersi. Consapevole che, comunque, sarebbe andato oltre. Glielo imponeva la sua poliedricità espressiva che è stata irrefrenabile.
Di quegli anni è la produzione cha maggiormente somiglia all’uomo, alle sue concrete ambizioni di artista, al linguaggio che voleva sentire e sentiva suo.
La rivoluzione di Mario Schifano non è finita perché il suo merito, in un mondo allora bacchettone ed ingessato molto più di ora, è stato quello di non tentare il dialogo, per spiegare la sua forza. Schifano, per la pittura e per la società di quei suoi fortunati tempi, è stato un sasso contro il vetro degli stereotipi, dei teoremi preconcetti, delle teorie classificatrici. Ha messo al centro della sua azione i soggetti più vicini ai principi del Pop, con coraggio e fermezza.
E allora l’aria fresca che tutti aspettavano è entrata da quel vetro rotto, finalmente.