Antonio Murgia, la figura e l’umano esplorarsi

di Giorgio Barassi
Ciò che conosciamo di noi è solamente
una parte, e forse piccolissima, di
ciò che siamo a nostra insaputa.
(Luigi Pirandello)
INTUITIVE ACT cm 100 x 170 diptych 2
Riassume in un fiato, tra le altre belle spiegazioni, il suo dipingere. Antonio Murgia potrebbe andare avanti per ore a parlare della sua pittura sotto il peso delle nostre incalzanti domande, ma ha la pazienza e la ordinata saggezza di chi non pronuncia un vocabolo fuori posto. E ne dice già poche, armato della santa pratica del silenzio o delle poche parole, che è per lui naturale, essendo sardo. Della sua terra e delle sue origini parla con oggettiva compostezza, ed è già chiaro alla prima lettura delle sue opere, da cui, tra gli altri colori, sbucano gli azzurri di quel mare irripetibile e la bellezza fornita da una dote innata, permanente. Una ricerca faticosa e non sempre fortunata, con un clamoroso abbandono dei pennelli, poi ripresi, per fortuna, a ridare corpo ai volti ed alle sferzate di colore che ormai delineano una sua propria nota stilistica, rendendolo singolare ed apprezzato artista, moderno e passionale quanto indagatore e convinto sostenitore della necessità del bello e del non conforme.
PERFECTION IS NOT A CONCEPT cm 100 x 100 3Dalla Costa Sud della sua isola va a Milano, a Brera, e studia quanto gli basta a capire cosa vorrebbe e cosa non vuole. I primi approcci alla indagine sui volti sfociano in una serie di esercizi di stile che gli serviranno poi a radunare attorno a sé le forze e la tecnica con cui ha affrontato le opere di arte sacra o ispirate ai grandissimi della storia. Quella pagina servì a Murgia per capire che il quadro non poteva né doveva essere solo un figlio della bravura, ma doveva andare a colpire la sensibilità di chi guarda suscitando un interesse che non fosse solo e segnatamente quello per il bel dipingere. Da lì nascono le indagini e la ricerca sugli aspetti nascosti dell’anima, sulle propensioni, i sogni, i difetti ed i pregi di ciascuno di noi. Una pittura che non limita l’autore ad esibire la sua capacità, ma a tentare di incontrare lo sconosciuto che ciascuno di noi porta con sé e che a volte, se non sempre, nega. Quando decide di tornare al lavoro del pittore, dopo quell’abbandono che gli fu di aiuto per ritrovarsi, Murgia ironizza e sferza una società ben diversa da quella che aveva lasciato. Lui e i suoi coetanei sono i ragazzi che hanno vissuto i vent’anni con la PFM, il Banco e gli Area. I gruppi che lanciavano la potente sfida del rock progressive in una Italia ben diversa da quella degli anni 2000. E allora era necessario svilire con eleganza, sfiorare lo scherno in punta di fioretto per sgonfiare i miti che oggi nemmeno si contano più, pare che ne nasca uno al giorno. Così Mike Tyson prende un gancio destro da Topolino, qualche personaggio Disneyano veste come un tronista o è impegnato in pose erotiche, altre figure iconiche perdono la loro giusta o ingiusta ieraticità sotto i colpi di una pittura sapiente quanto Pop. Pop alla giusta (ed unica) maniera del popular. Pop quanto quelle pulsazioni generate dalle inquietudini e dalla frattura sociale negli anni difficili ma anche foriere di tanta pittura di qualità. Pop alla maniera di Murgia, sicuramente. Era arrivato il momento di collocare quella anima Pop in uno spazio indagatore conciliante e gradevole, era il momento di mettere insieme le lezioni di figura con le intenzioni di indagine, i volti meravigliosamente dolci con le elaborazioni cromatiche più informali. Era, per Murgia, il momento di chiudere un cerchio di esperienze, nozioni, incontri, sensazioni e consapevolezze guadagnate centimetro dopo centimetro, con la pazienza e l’impegno di una ricerca convinta. E così Antonio Murgia attinge alle sue conoscenze, alle emozioni che sono dell’uomo e non solo dell’artista, scegliendo una via impervia e consentita a pochi, come quei sentierini in mezzo alle dune ed alle collinette delle sue parti vicine al mare, ormai sempre più rari, da cui ti aspetti di scrutare l’infinito mentre i rovi e i rametti di mirto ti graffiano i polpacci. Incedi convinto di sapere che arriverai. La meta è la serenità di un mare turchese senza limiti, di una sabbia bianchissima. Alle spalle gli odori della terra e della macchia silenziosa. La conquista è compiuta.
Da quelle contrazioni identitarie, dagli sforzi per cercare una via che abbia le caratteristiche della singolarità e della autonomia, attraverso una serie di emozioni e di attenzione alle emozioni, Murgia arriva alle due serie Oros e Justaposition. La prima prende le mosse dalle iniziali delle parole ORdine e dalle due finali di caOS. Una combinazione che non serve a creare caos né a richiamare all’ordine, ma ha in entrambi gli elementi la maniera per chiedere implicitamente a chi DAY BY DAY cm 100 x 120 4guarda di servirsi liberamente degli innesti di colore o di altri elementi nel complesso dell’opera, che ha nei volti o nei corpi la parte razionale e sognante insieme. Dunque lo sfondo può essere damascato o addirittura irregolare, le scritte “Fragile” o altro ricavato dalle stampe che ci passano tutti i giorni sotto gli occhi, e che per ciò stesso sono popular, invadono i volti, li completano e li arricchiscono, corredate da quei passaggi policromi ed irregolari che danno l’idea di un dualismo sulla falsariga della dualità astratto-figurativo. A pronunciarci su quella inventata dicotomia, porteremmo il lettore fuori strada. Ma da Oros deriva proprio la convinzione che classificare la pittura in astratta o figurativa è evidentemente un falso problema. Justaposition è il giustapporre. Che a volte diventa sovrapporre e genera larghe fasce di colore in grado di coprire per intero uno di quei volti. Oppure è giusto richiamo, deciso decoro, elemento pressochè congenito alla figurazione, di cui peraltro Murgia è ottimo interprete. Iuxta Ponere, in latino. In modo giusto, a giusta ragione. Il ponere è la fatica, è il lavoro del pittore. Et voila, la antitesi è annullata. La convivenza di componenti distanti diventa armonica e coerente, e la cifra stilistica di Antonio Murgia è completata. Il suo è un lavoro in continuo evolvere. Occuparsi di quel che il fruitore vedrà è materia per animi sensibili, ed è il caso di questo organizzatissimo pittore, che trova le idee del comporre con la regolarità dell’artigiano che ritrova alla cieca, sul banco di lavoro, gli attrezzi del mestiere ma sa anche creare la giusta atmosfera per darci l’idea di quanto sia importante guardarci allo specchio, vedere quegli orgogliosi pezzi di colore galleggiare nello spazio del quadro come dovremmo vedere quel che ci appartiene intimamente, quello che evitiamo per non crearci la afflittività dell’autocensura.
Monitorio ed ironico, sagace e tecnico, leggero e convincente, riconoscibile ed alternativo all’appiattimento, di cui è nemico giurato quanto lo siamo noi da sempre. Lotta con quel che ha, e non è poco. Propone e governa dall’alto di una pittura che nutre lo spirito, perché è conoscenza e gioco. Gioia e indagine. Alla fine, per sottolineare il capirci, abbiamo attinto a qualche sano esempio calcistico. Abbiamo finito, io e Murgia, per parlare di Zeman e del calcio che risponde a regole di geometria e velocità, ma che rimane un gioco ed affascina le menti aperte. Riempire il campo di corsa e di tecnica come riempire lo spazio del quadro di elementi necessari, indifferibili. La migliore arma per sfidare la piattezza è ragionare sulla maniera diversa di proporre, incoraggiando alla osservazione e dando tutto, senza remore, con coraggio. Staccandosi dalle ovvietà di una società che ci vorrebbe anonimi, silenziosi complici di un livellamento in basso. E in questo saper eccellere, Antonio Murgia eccelle.