Dal Baltico al Mediterraneo Mostra di Silvana Gatti e Dimitri Kuzmin
A cura di Massimiliano Bordigoni Denaro
Le brume, che si levano sulle vaste distese, quasi infinite, delle acque del mar Baltico; quel pallore soffuso, mitigato, nel corso dell’anno, soltanto dal “Sole di Mezzanotte” con le sue “notti bianche”, che tanto bene traspone nelle sue opere l’eccelso pittore Ivan Konstantinovic Ajvazovskij, buon amico di William Turner (e nella fedele copia eseguita da Dimitri Kuzmin, una delle opere del romantico maestro armeno – in cui è ritratta una veduta di San Pietroburgo - è esposta in mostra; mentre notiamo che Dimitri Kuzmin – la cui famiglia è originaria di quella città baltica - ha da sempre amato raffigurare vedute e scorci della prediletta Venezia); quella sorta di raccolta, ovattata intimità, che scaturisce dalla simbiosi con l’elemento acquatico, ci sembrano strettamente legate, anzi, persino ci convincono di poter rappresentare il movente primordiale, più vero ed impercettibile, che contribuisce a forgiare un importante aspetto del carattere, che si sostanzia anche quale idem sentire, proprio a non pochi tra coloro che hanno vissuto attorno a quelle sponde nordiche. Sospingere, cioè, il proprio spirito in alto, oltre il limite segnato dalla dimensione del sensibile. Quelle particolari condizioni climatiche, geografiche, ambientali, psicologiche, hanno, per la loro parte, a nostro parere, concorso ad influenzare personalità, divenute giganti della letteratura, piuttosto, meglio, della cultura universale.
Una fra esse, certamente, può ravvisarsi in Fedor Michailovic Dostoevskij, celebrato romanziere e uomo dal finissimo pensiero; che quasi compendia il contatto dell’ancestrale spiritualità dell’anima russa con il nichilismo dell’era moderna.
“L’inferno è la sofferenza di non poter più amare” – proclama lo starec Zosima ne “I fratelli Karamazov” (e Dostoevskij, mediante gli insegnamenti insiti nelle parole di questo suo personaggio, in fondo, potrebbe essere ritenuto egli stesso uno starec, una guida spirituale…).
La frase è famosa, colma di significato nella sua laconica semplicità. E molto attuale. Quanti, aimé, ci sembra di veder vivere in questa tormentosa tortura, dannosa per l’anima (l’amore è tutto, è lo scopo della vita stessa - ed invero esso non pare, in sé, circoscritto neppure all’amore verso qualcuno o qualcosa in ispecie, potendo invero sublimarsi in altro di superiore magnitudine…), magari ignari ovvero incoscienti, e nonostante l’esteriorità dei sorrisi, in verità molto di moda ai nostri giorni, in cui vige l’imperio – ormai assoluto quanto fatuo - dell’apparire sull’essere (eppure, rimedio efficace già sarebbe il ricorrere alla saggia massima, per cui in medio stat virtus…).
Mentre uno spirito indubbiamente capace di amare - digradando di latitudine, dal Baltico verso Sud, verso l’altro mare, l’altro termine del binomio che ha dato luogo al titolo della mostra, l’assai più luminoso e caldo Mediterraneo - e che, immediatamente, guardando le tele, ben prima quindi di ricevere conferma facendone personale conoscenza, ci ha trasmesso questa impressione, è personificato da Silvana Gatti.
Già altrove, abbiamo descritto ed offerto una interpretazione dei molteplici significati che ravvisiamo nelle opere di Silvana Gatti. Infatti, abbiamo potuto curare, recensire e presentare una sua personale in Versilia, a Forte dei Marmi, lo scorso anno (e, peraltro, è in quella occasione, che i due artisti in mostra si sono conosciuti; e, avendo recensito e presentato, quest’anno, due mostre di Dimitri Kuzmin – poliedrico artista italo-russo, il quale, oltre a dipingere, è ottimo scultore nonché maestro iconografo, dedicate a Leonardo da Vinci, nella ricorrenza dei cinquecento anni dalla scomparsa, dove egli ha esposto anche alcune copie di opere leonardesche, tra cui una “Gioconda”, è perciò motivo di grande soddisfazione la liaison artistica che si è quindi venuta a creare, indubitabile causa prima della presente mostra).
E, come allora abbiamo avuto modo partitamente di mettere in luce, il Mediterraneo, in relazione ad alcuni specifici a- spetti che esso esprime, è senza alcun dubbio una delle precipue fonti di ispirazione dell’artista torinese.
Ma in numerose sue tele abbiamo colto, quale sentimento spassionato, pieno, quindi affatto materno, anche un altro elemento: l’amore per l’ ”altro”.
In una accezione, tuttavia, più ampia, che oltrepassa il concetto di semplice amore per il prossimo. Esso appare, invece, come rivolto ad abbracciare chi voglia fuggire da una situazione di sofferenza, certamente dettata da condizioni di mero ordine materiale (tematiche spesso presenti nei suoi dipinti, in quanto cogenti nella loro rude attualità), bensì anche scaturente da ragioni più profonde, radicate nell’inconscio e perciò comprensibilmente più subdole: tutti costoro si trovano innanzi un ostacolo immane da superare, il mare con la sua vastità. Forse, quel mare, ed il necessario viaggio da affrontare per giungere alla meta anelata, potrebbe anche rappresentare l’effigie della metafora di un viaggio interiore; un viaggio intrapreso dal viaggiatore alla ricerca di sé stesso, del proprio “sé”.
Parimenti ad un labirinto, simile a quelli sovente raffigurati nell’iconografia medioevale, da percorrere, anche soltanto per mezzo della mente, in luogo di un pellegrinaggio purificatore e rigeneratore in Terra Santa oppure a Santiago di Compostela. Ma abbiamo in precedenza anche illustrato come in alcune opere di Silvana Gatti sia evocato, a nostro parere, un altro importante simbolo. La “Grande Dea” mediterranea, la “Dea Madre”, rappresenta quel simbolo. Stipite di tutte le divinità, come di tutti gli uomini, essa era oggetto di profonda venerazione, con diversi nomi, per tutti i popoli che vivevano nel bacino del Mediterraneo. Una divinità, invero, anche strettamente legata all’elemento “acqua” (il che probabilmente trova una eco ancora in età storica, con figure femminili divine o a cui comunque vengono ascritti caratteri magici - come ninfe o fate, poste in relazione a fonti, laghi, fiumi, corsi d’acqua). Ed è intuitivo il rapporto tra l’elemento acqueo e l’elemento femminile, dotato della capacità divina di generare la vita.
Ciò, fino all’avvento di stirpi guerriere, instauratrici di una struttura patriarcale, pertanto diametralmente opposta a quella indigena, della società.
Evento che – ed è questa una nostra personale convinzione – potrebbe essere stato determinante nel sancire la fine della cosiddetta “Età dell’oro” (l’Aurea Aetas, di cui narrano gli antichi), un tem- po, come tutti sanno, contrassegnato dalla pace; quindi una antica, pacifica era di felicità e prosperità. Ed in quella simbologia, che Silvana Gatti trasfonde nelle sue tele con un sapiente, misurato uso del colore (che ci suggerisce altresì rimembran- ze circa la teoria di Goethe sul colore, fatto di “luce” e “buio”, a nostro sommes- so avviso, almeno filosoficamente veridica, in quanto l’esistenza tutta, vita uma- na in primis, a ben guardare, è permeata dall’inscindibile coppia “chiaro/scuro”, termini opposti, contrari solo in apparenza; concetto assai ben reso dalla “scacchiera”, che possiamo incontrare nella scienza araldica), e con nuances ottenute mediante pennellate leggiadre e mai troppo materiche, amiamo cogliere anche un positivo auspicio, un augurio per un non lontano futuro, apportatore di un ritorno a quell’epoca aurea, dominata dalla pace.
Ecco, quindi, che congiungendo idealmente i due mari, in questo itinerario da Nord a Sud (che può comunque, allo stesso modo, utilmente svolgersi nella opposta direzione, da Sud verso Nord), da un Sole fioco e velato ad un Sole sgargiante e potente, dalle nebbie evanescenti alla luce vivida, dalle più fitte oscurità invernali allo splendore accecante dell’estate, il cerchio si conclude in perfetta geometria, in una proporzione aurea, che induce ad evocare ancora Dostoevskij, ed un’altra sua frase assai celebre, che peraltro, in modo molto naturale, si lega al campo dell’arte. “La bellezza salverà il mondo”, viene riferito più volte nell’ “Idiota”, da diversi personaggi, attribuendo quelle parole ad un protagonista di quel romanzo (una figura cui forse è assegnata una funzione escatologica), il principe Miskin. E ognuno è consapevole del potere indubbio che l’arte, quindi l’artista, ha di suscitare la “bellezza”.
Ma, in proposito, dobbiamo notare che, nella lingua russa, la parola “mondo” si esprime con la parola “mir”. E “mir”, in quella lingua, ha anche un altro significato: “pace”…
Presso il Chiostro dell'Annunziata
via Po 45 - Torino
Inaugurazione il 7 febbraio 2020 ore 17.00
Sino al 13 febbraio 2020
dalle 10.00 alle 12.00;
dalle 15.00 alle 19.00
Massimiliano Bordigoni Denaro
Le brume, che si levano sulle vaste distese, quasi infinite, delle acque del mar Baltico; quel pallore soffuso, mitigato, nel corso dell’anno, soltanto dal “Sole di Mezzanotte” con le sue “notti bianche”, che tanto bene traspone nelle sue opere l’eccelso pittore Ivan Konstantinovic Ajvazovskij, buon amico di William Turner (e nella fedele copia eseguita da Dimitri Kuzmin, una delle opere del romantico maestro armeno – in cui è ritratta una veduta di San Pietroburgo - è esposta in mostra; mentre notiamo che Dimitri Kuzmin – la cui famiglia è originaria di quella città baltica - ha da sempre amato raffigurare vedute e scorci della prediletta Venezia); quella sorta di raccolta, ovattata intimità, che scaturisce dalla simbiosi con l’elemento acquatico, ci sembrano strettamente legate, anzi, persino ci convincono di poter rappresentare il movente primordiale, più vero ed impercettibile, che contribuisce a forgiare un importante aspetto del carattere, che si sostanzia anche quale idem sentire, proprio a non pochi tra coloro che hanno vissuto attorno a quelle sponde nordiche. Sospingere, cioè, il proprio spirito in alto, oltre il limite segnato dalla dimensione del sensibile. Quelle particolari condizioni climatiche, geografiche, ambientali, psicologiche, hanno, per la loro parte, a nostro parere, concorso ad influenzare personalità, divenute giganti della letteratura, piuttosto, meglio, della cultura universale.
Una fra esse, certamente, può ravvisarsi in Fedor Michailovic Dostoevskij, celebrato romanziere e uomo dal finissimo pensiero; che quasi compendia il contatto dell’ancestrale spiritualità dell’anima russa con il nichilismo dell’era moderna.
“L’inferno è la sofferenza di non poter più amare” – proclama lo starec Zosima ne “I fratelli Karamazov” (e Dostoevskij, mediante gli insegnamenti insiti nelle parole di questo suo personaggio, in fondo, potrebbe essere ritenuto egli stesso uno starec, una guida spirituale…).
La frase è famosa, colma di significato nella sua laconica semplicità. E molto attuale. Quanti, aimé, ci sembra di veder vivere in questa tormentosa tortura, dannosa per l’anima (l’amore è tutto, è lo scopo della vita stessa - ed invero esso non pare, in sé, circoscritto neppure all’amore verso qualcuno o qualcosa in ispecie, potendo invero sublimarsi in altro di superiore magnitudine…), magari ignari ovvero incoscienti, e nonostante l’esteriorità dei sorrisi, in verità molto di moda ai nostri giorni, in cui vige l’imperio – ormai assoluto quanto fatuo - dell’apparire sull’essere (eppure, rimedio efficace già sarebbe il ricorrere alla saggia massima, per cui in medio stat virtus…).
Mentre uno spirito indubbiamente capace di amare - digradando di latitudine, dal Baltico verso Sud, verso l’altro mare, l’altro termine del binomio che ha dato luogo al titolo della mostra, l’assai più luminoso e caldo Mediterraneo - e che, immediatamente, guardando le tele, ben prima quindi di ricevere conferma facendone personale conoscenza, ci ha trasmesso questa impressione, è personificato da Silvana Gatti.
Già altrove, abbiamo descritto ed offerto una interpretazione dei molteplici significati che ravvisiamo nelle opere di Silvana Gatti. Infatti, abbiamo potuto curare, recensire e presentare una sua personale in Versilia, a Forte dei Marmi, lo scorso anno (e, peraltro, è in quella occasione, che i due artisti in mostra si sono conosciuti; e, avendo recensito e presentato, quest’anno, due mostre di Dimitri Kuzmin – poliedrico artista italo-russo, il quale, oltre a dipingere, è ottimo scultore nonché maestro iconografo, dedicate a Leonardo da Vinci, nella ricorrenza dei cinquecento anni dalla scomparsa, dove egli ha esposto anche alcune copie di opere leonardesche, tra cui una “Gioconda”, è perciò motivo di grande soddisfazione la liaison artistica che si è quindi venuta a creare, indubitabile causa prima della presente mostra).
E, come allora abbiamo avuto modo partitamente di mettere in luce, il Mediterraneo, in relazione ad alcuni specifici a- spetti che esso esprime, è senza alcun dubbio una delle precipue fonti di ispirazione dell’artista torinese.
Ma in numerose sue tele abbiamo colto, quale sentimento spassionato, pieno, quindi affatto materno, anche un altro elemento: l’amore per l’ ”altro”.
In una accezione, tuttavia, più ampia, che oltrepassa il concetto di semplice amore per il prossimo. Esso appare, invece, come rivolto ad abbracciare chi voglia fuggire da una situazione di sofferenza, certamente dettata da condizioni di mero ordine materiale (tematiche spesso presenti nei suoi dipinti, in quanto cogenti nella loro rude attualità), bensì anche scaturente da ragioni più profonde, radicate nell’inconscio e perciò comprensibilmente più subdole: tutti costoro si trovano innanzi un ostacolo immane da superare, il mare con la sua vastità. Forse, quel mare, ed il necessario viaggio da affrontare per giungere alla meta anelata, potrebbe anche rappresentare l’effigie della metafora di un viaggio interiore; un viaggio intrapreso dal viaggiatore alla ricerca di sé stesso, del proprio “sé”.
Parimenti ad un labirinto, simile a quelli sovente raffigurati nell’iconografia medioevale, da percorrere, anche soltanto per mezzo della mente, in luogo di un pellegrinaggio purificatore e rigeneratore in Terra Santa oppure a Santiago di Compostela. Ma abbiamo in precedenza anche illustrato come in alcune opere di Silvana Gatti sia evocato, a nostro parere, un altro importante simbolo. La “Grande Dea” mediterranea, la “Dea Madre”, rappresenta quel simbolo. Stipite di tutte le divinità, come di tutti gli uomini, essa era oggetto di profonda venerazione, con diversi nomi, per tutti i popoli che vivevano nel bacino del Mediterraneo. Una divinità, invero, anche strettamente legata all’elemento “acqua” (il che probabilmente trova una eco ancora in età storica, con figure femminili divine o a cui comunque vengono ascritti caratteri magici - come ninfe o fate, poste in relazione a fonti, laghi, fiumi, corsi d’acqua). Ed è intuitivo il rapporto tra l’elemento acqueo e l’elemento femminile, dotato della capacità divina di generare la vita.
Ciò, fino all’avvento di stirpi guerriere, instauratrici di una struttura patriarcale, pertanto diametralmente opposta a quella indigena, della società.
Evento che – ed è questa una nostra personale convinzione – potrebbe essere stato determinante nel sancire la fine della cosiddetta “Età dell’oro” (l’Aurea Aetas, di cui narrano gli antichi), un tem- po, come tutti sanno, contrassegnato dalla pace; quindi una antica, pacifica era di felicità e prosperità. Ed in quella simbologia, che Silvana Gatti trasfonde nelle sue tele con un sapiente, misurato uso del colore (che ci suggerisce altresì rimembran- ze circa la teoria di Goethe sul colore, fatto di “luce” e “buio”, a nostro sommes- so avviso, almeno filosoficamente veridica, in quanto l’esistenza tutta, vita uma- na in primis, a ben guardare, è permeata dall’inscindibile coppia “chiaro/scuro”, termini opposti, contrari solo in apparenza; concetto assai ben reso dalla “scacchiera”, che possiamo incontrare nella scienza araldica), e con nuances ottenute mediante pennellate leggiadre e mai troppo materiche, amiamo cogliere anche un positivo auspicio, un augurio per un non lontano futuro, apportatore di un ritorno a quell’epoca aurea, dominata dalla pace.
Ecco, quindi, che congiungendo idealmente i due mari, in questo itinerario da Nord a Sud (che può comunque, allo stesso modo, utilmente svolgersi nella opposta direzione, da Sud verso Nord), da un Sole fioco e velato ad un Sole sgargiante e potente, dalle nebbie evanescenti alla luce vivida, dalle più fitte oscurità invernali allo splendore accecante dell’estate, il cerchio si conclude in perfetta geometria, in una proporzione aurea, che induce ad evocare ancora Dostoevskij, ed un’altra sua frase assai celebre, che peraltro, in modo molto naturale, si lega al campo dell’arte. “La bellezza salverà il mondo”, viene riferito più volte nell’ “Idiota”, da diversi personaggi, attribuendo quelle parole ad un protagonista di quel romanzo (una figura cui forse è assegnata una funzione escatologica), il principe Miskin. E ognuno è consapevole del potere indubbio che l’arte, quindi l’artista, ha di suscitare la “bellezza”.
Ma, in proposito, dobbiamo notare che, nella lingua russa, la parola “mondo” si esprime con la parola “mir”. E “mir”, in quella lingua, ha anche un altro significato: “pace”…
Presso il Chiostro dell'Annunziata
via Po 45 - Torino
Inaugurazione il 7 febbraio 2020 ore 17.00
Sino al 13 febbraio 2020
dalle 10.00 alle 12.00;
dalle 15.00 alle 19.00
Massimiliano Bordigoni Denaro