Gorky a Ca’ Pesaro

La mostra che vuole mettere in evidenza la maturità stilistica con le opere degli anni ’40
di Lara Petricig
fotografie di David Radovanovic
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L'integrità morale, la certezza di essere pittore e l’essere pioniere dell’arte americana del XX secolo! ”Questi, i tre presupposti, riferiti a Gorky, per la mostra in corso a Ca’Pesaro fino al 22 settembre, di cui parla Gabriella Belli, direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia e curatrice della retrospettiva assieme a Edith Devaney (curatrice della Royal Academy of Arts, di Londra). La mostra di circa ottanta opere è allestita con una semplice suddivisione in quattro sale, con un indirizzo in qualche modo cronologico. La suddivisione: “Ritratti e figure”; “Nature morte”; “Disegni”; Anni ‘40”, è incentrata a svelare l’evoluzione del vocabolario artistico di Arshile Gorky; anche se l’interesse vero di Edith Devaney è quello di mettere in evidenza qual è l’arrivo dell’artista, qual è la sua maturità stilistica, quindi i quadri celebri del quarto decennio del secolo. La maturità di Gorky la conosciamo dai manuali di storia dell’arte, nelle illustrazioni delle sue opere, con quelle tipiche forme ricorrenti. Custodi dell’inconscio e delle sue effusioni liriche, hanno avuto un ruolo nella formazione dell’Espressionismo astratto, influenzando Willem de Kooning ma anche chi con questo movimento non c’entrava assolutamente nulla e andava assaporando un delicato tonalismo di origine morandiana, ancora memore del cubismo sintetico e della lezione di Braque, come ad esempio Afro, che da Gorky subì una sterzata. Effettivamente, nella sezione della mostra dedicata agli anni ‘40 le opere recuperano una forza vitale. Evocative di ricordi d’infanzia mescolati alle complessità e alle contraddizioni che l’artista sentiva nella sua esistenza, risentono della riconnessione con la natura avvenuta nelle estati del 1942-1945, quando Gorky trascorse le sue giornate nelle campagne in Connecticut e alla Crooked Run Farm in Virginia. L’ immersione nella natura gli permise di estrarre le forme archetipiche fondate sull’osservazione degli elementi botanici. Quelle forme riempite di colore e ravvivate di forza interiore che ritroviamo come caratteristiche della sua espressione dal 1944 al 1948, quando i quadri mostrano la spazialità allargata dei paesaggi. Paesaggi interiori.
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Una grande tela, portata a termine nel 1944, Il fegato è la cresta del gallo, al di là dei doppi significati e delle curiosità dei giochi di parole, proviene da un turbinio di sensazioni. La dolcezza dei ricordi si mescola con l’immaginazione. E’ un racconto senza costrutto; una storia di linee essenziali, avvitamenti allusioni grafiche a stati d’animo contraddittori e grafemi a forma di cresta. Si stagliano come immagini di una vita emotiva turbolenta tra profili di elementi a ogiva, involucri invisibili di colore voluttuoso che si alzano, fluttuano e occhieggiano in uno stato latente, in un tempo che rallenta e attenua le sensazioni ma non risolve i conflitti interni. Se un desiderato alleggerimento delle forme, che Gorky avverte nel corso degli anni trenta, si riconosce nei lavori realizzati tra il ’42 e il ’46, dove è sottintesa la conoscenza tecnica di Mirò e di Matta, quelli precedenti rivelano un’empatia stilistica verso gli artisti delle Avanguardie storiche. E’ così che nasce l’artista Gorky: “Era eclettico. Scoprì se stesso copiando gli altri”, racconta in un video in mostra la moglie dell’artista. “Quando viveva a New York, Arshile, aveva il Metropolitan Museum a due passi...” pare cercasse di comprende le motivazioni del fare pittura di artisti importanti. Non ne imitava solo il disegno come esercizio manuale ma cercava di scendere a fondo nei contenuti. La sala dei ritratti e figure degli anni trenta rivela proprio questo suo aver imparato copiando quelli di De Chirico e forse di Otto Dix. Pare fosse rimasto sedotto dalle figure femminili della pittura classicista di Picasso, come si vede nel piccolo olio su cartone Ritratto di me stesso e della mia moglie immaginaria (1933-34), che preannuncia anche il crescente interesse dell’artista verso lo studio dell’immaginazione e della proiezione psichica. Infatti i pittori surrealisti furono i primi a prestargli attenzione. Tra gli artisti che per primi scrissero di Gorky, poco dopo la sua scomparsa avvenuta nel 1948, anno della sua apparizione alla Biennale di Venezia, c’è Afro che insofferente del clima culturale italiano, aveva iniziato a intrattenere rapporti stimolanti con personalità di prim’ordine del contesto culturale statunitense. Afro rimase colpito dal lavoro di Gorky nel suo primo soggiorno negli Stati Uniti nel corso del 1950, durante il quale apprese un nuovo indirizzo poetico da seguire.
gorky3Chissà se vide anche l’autoritratto dalle chiare tonalità in cui Gorky spiegava di avere dato ai suoi occhi la forma di una foglia (Autoritratto, 1937, olio su tela in collezione privata). L’autoritratto si trova all’ingresso del percorso espositivo e si avvicina in qualche modo a quelli che Afro realizzava nello stesso periodo o poco prima. La natura aveva avuto sempre un posto importante dentro di lui, ma nella vita Gorky aveva dovuto attraversare momenti difficili; era giunto negli Stati Uniti all’età di quindici anni, assieme alla sorella, per sfuggire al genocidio armeno. Erano gli anni ruggenti a cui seguirono i periodi di crisi economica dopo il crollo della borsa del ‘29. Quindi negli anni trenta riuscì a far parte del programma statale Federal Art Project, per lo sviluppo delle arti visive, inserito nel New Deal, che gli garantì un salario e la possibilità di continuare a dipingere e di realizzare opere pubbliche di grandi dimensioni, come i murali trasferiti poi all’aeroporto di Newark.
La sezione della mostra relativa alle nature morte non è la parte migliore della produzione dell’artista la cui creatività viene approfondita piuttosto attraverso i disegni su carta da pacchi bianca o gialla, matita e tecniche miste presentati come trait d’union tra il periodo dell’imitazione empatica e quello della vera espressione.