La Fondazione BISCOZZI | RIMBAUD

Nasce a Lecce un nuovo spazio espositivo per l’arte contemporanea. Apertura al pubblico da domenica 7 febbraio 2021.
a cura di Silvana Gatti.

L'amore per l’arte, spesso, va di pari passo con l’amore di una vita, come nel caso di Dominique Biscozzi Rimbaud e suo marito Luigi Biscozzi, una coppia che ha condiviso la crescita di una collezione d’arte, che verrà esposta in permanenza a Lecce nel nuovo spazio espositivo che aprirà al pubblico da domenica 7 febbraio 2021. Luigi Biscozzi, conosciuto nel settore della consulenza fiscale e tributaria in Italia, nato a Salice Salentino nel 1934, iniziò a collezionare opere d’arte nel 1969, ed ha fatto appena in tempo ad approvare l’ultima bozza del catalogo (ora a lui dedicato), a scegliere come sede espositiva la palazzina di piazzetta Baglivi 4 a Lecce, a confermare nei loro incarichi il curatore del catalogo e quello della collezione, prima di passare a miglior vita il 12 settembre 2018, lasciando alla moglie il compito di gestire la Fondazione Biscozzi Rimbaud. Al fine di completare la collezione, alcune opere furono aggiunte negli ultimi mesi di vita di Luigi Biscozzi e per un periodo dopo la sua scomparsa, assecondando la sua volontà. Tra le ultime acquisizioni della collezione Biscozzi Rimbaud sono da annoverare Martini, de Pisis e Veronesi. Con la moglie Dominique Rimbaud, conosciuta a Parigi, Biscozzi ha condiviso per oltre quarant’anni la passione per l’arte, viaggiando per Biennali e mostre internazionali, interessandosi al dibattito tra realismo, figurazione, informale, astrazione, vivendo l’atmosfera della Milano degli anni Sessanta: il bar Jamaica a Brera con i fotografi Mulas, Dondero, Alfa Castaldi, ma anche Lucio Fontana, Piero Manzoni, Ettore Sordini, Angelo Verga, Dadamaino e giornalisti, scrittori, critici d’arte.
FIG. 5 Piero Dorazio Composizione reticolo blu 1962













Biscozzi, donando alla città le Lecce la sua collezione, voleva suggellare il suo legame con il Salento, da Lecce, col suo trionfante barocco, alle piccole chiese con un barocco più modesto ma sempre affascinante. Aveva infatti scritto: «Ho un debito di riconoscenza nei confronti della mia città di Lecce: mi ha dato la sua bellezza e una base scolastica che mi ha consentito di proseguire gli studi a Milano». Negli anni la collezione è stata ampliata fino a comprendere oltre duecento opere di grande qualità tra dipinti, sculture e grafiche. La collezione annovera opere importanti di grandi nomi italiani e internazionali dell’arte del Novecento: Filippo de Pisis, Arturo Martini, Enrico Prampolini, Josef Albers, Alberto Magnelli, Luigi Veronesi, con particolare riferimento agli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta: Fausto Melotti, Alberto Burri, Piero Dorazio, Renato Birolli, Tancredi Parmeggiani, Emilio Scanavino, Pietro Consagra, Kengiro Azuma, Dadamaino, Agostino Bonalumi, Angelo Savelli, Mario Schifano e molti altri. Nel febbraio del 2018 è stata costituita la Fondazione Biscozzi | Rimbaud, riconosciuta di pubblico interesse, con l’obiettivo di creare a Lecce uno spazio dove esporre stabilmente al pubblico una selezione dei migliori pezzi della collezione, ed impiantare una biblioteca specializzata, fare attività didattica e allestire mostre temporanee di arte del XX e XXI secolo. La direzione tecnico-scientifica della Fondazione e la curatela della collezione sono state affidate allo storico dell’arte Paolo Bolpagni e l’incarico di progettarne la sede allo studio Arrigoni Architetti, mentre Dominique Rimbaud ricopre la carica di presidente. Questa raccolta di opere è nata casualmente, con una litografia di Vespignani e una di Attardi, acquistate nel 1969 da un venditore di libri porta a porta. Soltanto in un secondo tempo Biscozzi venne a sapere che entrambi gli artisti, insieme ad altri, avevano fondato il gruppo ‘Il pro e il contro’, quale riferimento di nascenti esperimenti neo-figurali. Seguendo l’ordine di allestimento della mostra, nella prima sala troviamo un’opera di André Lanskoy , nato a Mosca il 31 marzo 1902, pittore russo che ha vissuto principalmente a Parigi, rimanendo influenzato dal Tachisme, movimento caratterizzato da composizioni astratte create con colori forti. Lanskoy si inserì tra gli artisti dell’astrazione lirica e i pittori della Scuola di Parigi, partecipando al Salon d’Automne del 1924, una mostra personale nel 1925 e una retrospettiva delle sue opere raccolte alla Neue Galerie di Zurigo in 1969. Lanskoy morì a Parigi il 24 agosto 1976. Nella stessa sala un’opera di Alan Davie, pittore scozzese (Grangemouth, Scozia, 1920 - Hertfordshire 2014). Al limite tra astrazione e figurazione, Davie connota i suoi intensi colori e i suoi segni di significati simbolici e di implicazioni ritualistiche legate allo Zen. Nella seconda sala spicca un capolavoro di Filippo de Pisis [1896-1956] del 1931, l’olio su tela Dalie. Lo stile di de Pisis nasce dall’eredità dell’Impressionismo e dell’Espressionismo francesi, rivisitati in chiave personale con una tecnica libera ed estrosa. Molto bello, di matrice cubista con timbro africano per via delle scelte cromatiche e compositive, è l’opera di Eugène-Nestor de Kermadec [1899- 1976], Femme accoudée, del 1933. Sempre in questa sala troviamo una piccola terracotta risalente all’ultima fase della vita di Arturo Martini [1889-1947], ossia la Cacciata di Adamo ed Eva, dall’originale linguaggio plastico che trasmette l’animo dei personaggi attraverso una potente forza evocativa che va oltre l’apparenza, spingendosi alle soglie dell’astrazione. Tra gli artisti della collezione, Enrico Prampolini celebra quell’arte “polimaterica” che è un mezzo d’espressione artistica rudimentale, il cui potere evocativo è affidato alla plasticità della materia, come si nota nel polimaterico “Irradiazioni cosmiche” del 1954, esposto in questa sezione insieme alle due chine su carta di Luigi Veronesi [1908-1998], artista che si pone tra le avanguardie storiche e l’arte della seconda metà del Novecento. Nelle sue opere, le forme vivono nello spazio senza una direzione precisa, generando una liricità che si traduce in ritmo dinamico grazie alle relazioni tra le figure lineari e lo spazio che esse creano sul supporto. Presenti in questa sala anche opere di Josef Albers, André Masson, Hans Hartung, Zoltán Kemény. Proseguendo nel percorso della mostra, nella terza sala troviamo un olio su tela del 1960 di Enzo Brunori, Vento caldo.
FIG. 8 .Angelo Savelli Danza 1956 olio su tela 56 x 71 cm collezione privatai













Nel clima di un espressionismo astratto che approda a una lettura più lirica, si muove la pittura di Renato Birolli [1905-1959], veronese. Nel suo ciclo di Incendi, da cui proviene Incendio notturno del 1956, qui esposto, la fusione tra figura e fondo si affida a quella Rivoluzione del colore che rende quest’ultimo intenso, drammatico, totalizzante. Alla ricerca di un possibile dio (1958) è il titolo nietzschiano/beckettiano che Emilio Scanavino [1922-1986] conferisce alla tela qui esposta. “Il nero è la notte che eguaglia le cose e riduce tutto ad una parata di ombre. Io sono il pittore di queste ombre”, afferma l’artista genovese, mentre Achille Perilli [1927] nell’opera presente in collezione, La radice della noia, del 1958, formula la sua indagine di estrazione formale partendo da un fondo scavato, segnato, organizzato. Anche nei lavori di Gianni Bertini [1922-2010] l’arte pittorica sperimenta diverse tecniche, dall’automatismo tachiste al grafismo, dall’action painting, al calligrafismo, dalle emulsioni al frottage e al polimaterismo, come è evidente nell’opera in mostra, Les sandales de Pandore (1956). Con Tancredi Parmeggiani, [1927-1964], A proposito di natura (1958), il discorso informale e quello geometrico si fondono. Il dinamismo disordinato della pittura giovanile di Tancredi fa dell’artista il miglior allievo di Kandinskij e di Klee, ma anche di Balla, Severini e dei maestri e amici più prossimi, Emilio Vedova e Lucio Fontana (la cui influenza sfocia nella comune sottoscrizione del Manifesto spazialista). Il malessere esistenziale che porta Tancredi dalla protezione di Peggy Guggenheim dal 1951 al suicidio nel Tevere, nel 1964, sembra preannunciata in ogni tela. La sala 4 racchiude opere di Pietro Consagra [1920-2005], in cui l’artista, con la serie dei Colloqui (dal 1955) da cui Oracolo di Chelsea Hotel (1960) e Lettera clochard (1961), giunge alla contemplazione frontale. La libera interpretazione della materia tra volumi e spazio si ritrova anche nell’Ascesa (1965) di Umberto Milani [1912-1969], che consiste nello sviluppo di forme ascensionali, diramate attorno a nuclei in espansione seguendo una direttrice verticale. Per un personaggio (1960), di Bepi Romagnoni [1930-1964] si distacca dal descrittivismo e dall’astrattismo e formalismo del secondo dopoguerra, annoverando una pittura dai toni forti interessata alla ricostruzione dell’immagine. Proseguendo la visita nella quinta sala, l’opera di Alberto Burri [1915-1995] impone la metamorfosi del quadro alla metà del Novecento. A partire dal 1948, l’artista utilizza i materiali più disparati in sostanza pittorica, giungendo alla sublimazione dei materiali come nel Cellotex del 1983, facente parte della collezione. Anche Alfredo Chighine [1914-1974], come Bonfanti e Della Torre, giunge all’astrazione allontanandosi dal paesaggismo. Nel caso di Arancio e verde (1958) la riduzione figurativa ad ampie zone di colore vibrante si esplica con una manualità decisa, quasi scultorea, tornando a mostrare la forza generosa della materia, seppur racchiusa entro zone e contorni. Angelo Savelli [1911-1995], italiano inserito nel contesto newyorkese, già a partire dal Rilievo bianco del 1960 approda a un codice cromatico, spaziale e organico che caratterizzerà la futura ricerca.
FIG. 2 Filippo de Pisis Dalie 1931














La sesta sala si apre con Aldo Calò [1910-1983] che indaga lo spazio attraverso un brusco taglio ed un vuoto improvviso della materia. In Senza titolo (1962) lo spazio si concentra nello spessore della lastra, ed il diaframma è composto da fogli sovrapposti e pressati. In Torso nero, opera del 1959 eseguita in marmo nero di Carrara da Carlo Sergio Signori [1906-1988], che si spinge verso la classicità con forme primarie e sperimentando l’interazione di queste forme secondo un’allegoria plastica. Alla fine degli anni quaranta l’Europa è orientata verso l’arte informale e materica. Darà un contributo decisivo, grazie alla sua plasticità pitturale, Jean Fautrier [1898-1964], in mostra con una Composizione del 1960. Nel Cortile di accesso alla terrazza, la Rosa selvatica (1999), opera di Salvatore Sava [1966] in ferro su pietra leccese, rimanda ai materiali tipici del Salento, descrivendo un’infiorescenza che ricorda quelle selvatiche della campagna salentina. Nella Sala 7, Reprise (1944) di Alberto Magnelli [1898-1971] testimonia il rigore matissiano della superficie, ancorando la partitura formale alla qualità pittorica di Firenze, quella degli sperimentatori arditi Paolo Uccello e Maso di Banco. Nella figura di Osvaldo Licini [1894-1958] si ravvisano le linee italiane – dal carattere lirico, onirico e cerebrale – dell’Astrattismo europeo. Nell’opera Notturno (1957) le superfici geometriche risultano essere appena sfiorate, mentre il segno della matita è lontano dall’accademismo e delinea precisi confini. Nella stessa sala, un’ope- ra di Bice Lazzari [1900-1981] (Senza titolo, 1951) che influenzata da Capogrossi, Licini, Melotti lavora muovendosi tra forma e informe, organico e inorganico, disegno e materia, ordine e disordine. Dalla scuola del Bauhaus e dagli insegnamenti di Albers, Klee e Kandinskij derivano le geometrie irregolari e le loro compenetrazioni sfumate nella pittura di Jean Leppien [1910-1991] (Senza titolo, 1950; Senza titolo, 1970). Nell’ottava sala, le opere di Arturo Bonfanti [1905-1978], Composizione 141 (1963), AC Murale 94 (1972) e Q.R.5-523 (1972) analizzano il rapporto tra i piani... L’opera di Piero Dorazio, qui presente con Composizione reticolo bludel 1962, oltrepassa la pittura figurativa del ‘900 italiano emergendo tra gli artisti del gruppo Forma. Fausto Melotti [1901-1986] con Senza titolo (circa 1973), abbandona la fissità grave del fondo per scivolare sul bianco indistinto. Melotti si muove, sia in scultura che in pittura, su equilibri minimi, sospensioni, elementi filiformi che danzano come i mobiles di Calder o i segni aerei di Twombly. La Sala 8 bis accoglie un’opera di Magdalo Mussio e Sentieri interrotti, opera del 1998 di Salvatore Sava (Surbo, 1966), la cui poetica è legata al territorio salentino, e per l’artista fiori, frutti e sassi divengono forme per immagini simboliche, realizzate in ferro pietra locale e impasti dipinti col giallo fluo. La sala 9 accoglie le opere di François Morellet [1926-2016], Sette doppie trame di bianco su rosso del 1960 a Due trame di griglia -1°+1° (#10mm) del 1975. La variazione percettiva, concepita nel primo lavoro con la ripetizione seriale di motivi geometrici primari sovrapposti in composizioni all-over, si trasforma successivamente con il ricorso alle griglie metalliche. Nel lavoro di Agostino Bonalumi [1935-2013], Viola (1965), la superficie è complice del supporto piegandosi o allungandosi verso angolature o mensole che articolano la tela spazialmente nella realtà dell’ambiente. In questa sala, esposti anche due lavori di Dadamaino, pseudonimo di Edoarda Emilia Maino, un'artista italiana che contribuì ai movimenti dell'avanguardia artistica milanese degli anni cinquanta con le sue ricerche geometrico-percettive. Si passa poi a Heinz Mack, artista tedesco che con Otto Piene ha fondato il movimento ZERO nel 1957. Sempre nella nona sala troviamo opere di Paolo Scheggi e Francesco Lo Savio. La rassegna prosegue nella decima sezione, con Senza titolo (1959) e L’Acropoli (1970) di Giulio Turcato [1912-1995], capace di esprimere una sintesi tra le istanze spaziali e quelle polimateriche, tra la composizione segnica e l’apertura all’immaginario Pop, con l’acquisizione della materia artificiale e sintetica. Le opere di Walter Leblanc e Giorgio Griffa sono a confronto dell’arte di Ettore Sordini [1934-2012] con Isola, (1964), in cui il grafismo rado e insicuro della linea s’imbatte nella pienezza di un fondo compatto, all’apparenza inalterabile, eppure capace di guadagnare il passo, aprire un varco seguendo il contorno di una maschera ritagliata. Per Arturo Vermi [1928-1988], Diario (1961), l’uscita dai limiti del quadro è sempre fattibile. Pier Paolo Calzolari [1943] (Senza titolo, s.d.), accenna a un proseguimento del discorso spaziale verso la nuova “ieraticità metafisica” di uno spazio unificato, aperto, un filtro bianco che si apre tra opera e spettatore. Ma anche un filtro mutevole e instabile come i materiali che adopera, il sale e il ghiaccio. L’opera Mu-737 (1973) di Kengiro Azuma [1926-2016] rappresenta il costante ritorno all’equilibrio tra le opposizioni. Mu vuol dire vuoto, ogni opera è l’attimo di questo vuotamento, di questa metamorfosi, in cui “il vuoto è il pieno della natura” nel senso che nell’assenza tutto può succedere. Nell’ambito del Movimento Arte Concreta guidato da Max Bill e teorizzato da Gillo Dorfles, Mario Nigro [1917-1992] opera alla distorsione dei piani e degli spazi pittorici, adottando l’allegoria del segno inclinato, ora disegnando orizzonti distorti, ora reiterando e alternando l’inclinazione del tratto (Due rossi opposti, 1970).
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La relazione segno-fondo ossessiona la produzione di Angelo Verga [1933-1999] (Conoto, 1963) che a quel fondo guarda come epigrafista, archeologo di semiosi disseminate e pullulanti. Via via che la pittura si avvicina alla scrittura, il colore ha il compito di evocare una densità e una matrice sedimentale dalla cui estrazione proverranno punti, macchie, tratti intraducibili. L’undicesima sala si apre con due opere di Vittorio Matino [1943], artista che subisce l’influenza di Klee, Licini e Tancredi ma resta fedele all’inclinazione mediterranea accogliendo nuove istanze culturali senza dimenticare la storia antica e stratificata (Giotto giallo e verderame, 1993). Tra gli artisti interessati all’esplorazione del colore e al suo dinamismo, spazio e profondità, Salvatore Esposito [1937] manifesta il carattere tipicamente mediterraneo in lavori che rielaborano il puntinismo italiano come Paesaggio italiano (1966) e Mare aperto (1968). Gilberto Zorio, nato nel 1944 ad Adorno Micca, Biella, vive e lavora a Torino. Protagonista del movimento Arte Povera, pone in primo piano metamorfosi e alchimie, studiando fenomeni naturali di trasformazione come l’evaporazione o l’ossidazione e il loro effetto sui materiali. L’attenzione rivolta all'elettricità lo porta a incorporare nei suoi lavori lampade, incandescenze, fosforescenze; altrove utilizza stelle e giavellotti, forme archetipiche evocatrici di energia. Per le sculture sceglie materiali fragili, da cui nascono stelle acciaiose o alambicchi in pyrex, contenenti soluzioni liquide in bilico su sottili giavellotti d’acciaio: sospendendo questi elementi in installazioni volutamente precarie, l’artista parla delle tensioni e della caducità del mondo fisico e chimico mentale. Chiudono questa sezione le opere di Armanda Verdirame e Mario Schifano. Anche gli spazi del piano terra raccolgono alcune opere, tra cui quelle di Bernard Aubertin, di Mario Deluigi e Mario Nigro. Attira lo sguardo, nella nicchia che dà sul cortile, il lavoro di Michele Guido [1976], in cui la perfezione del disegno “tecnico”, che talvolta ricorda l’opera di Escher, risulta essere in armonia con l’ambiente e con la storia. Nella sala di lettura al pian terreno, il lavoro di Ettore Colla [1896-1968], Cerchio magico, del 1958, conduce la pratica dell’assemblaggio e del ready made ad una ben precisa ricerca di rapporti logici e spaziali, secondo uno schematismo che da un lato annulla il volume dei corpi metallici, dall’altro ne genera uno nuovo, vuoto, aereo, aperto. L’opera Gemelli (1967) di Piero Dorazio [1927-2005] si sviluppa attraverso strisce verticali eseguite a mano libera, con l’intento di ricercare una continuità tra colore-luce e spazio, attraverso un susseguirsi di rapporti timbrici puri che delineano un piacevole effetto di gioco illusionistico. Le composizioni Senza titolo (1991, 1993) di Rodolfo Aricò [1930-2002] sono forme monocrome in cui il punto di fuga si trova al di fuori dell’opera, invadendo lo spazio circostante, mentre il colore stratificato conferisce alla superficie un certo dinamismo. In questa sezione è presente anche un’opera di Dadamaino [Edoarda Emilia Maino, 1930-2004], La ricerca del colore del 1966-1968, una tempera su tela composta da 10 elementi di 20x20 cm cadauno. Questa artista si muove in modo equilibrato districandosi con ordine tra i tanti fenomeni in corso tra gli anni sessanta e ottanta, ricevendo apprezzamenti anche da Piero Manzoni. A partire dal 1960, con l’opera Volume a moduli sfasati, Dadamaino “organizza” lo sfondamento della superficie assecondando l’intuizione di Fontana. Inoltre una parte degli spazi al piano terra sarà destinata a mostre temporanee: la prima programmata è dedicata ad Angelo Savelli, artista di origine calabrese vissuto a Roma e New York, famoso per le sue opere bianche. Con questa inizia la programmazione di mostre temporanee della Fondazione Biscozzi | Rimbaud a Lecce. Si tratta di un’attività in stretto rapporto con l’esposizione permanente della collezione, con l’obiettivo di ampliare la conoscenza dell’arte del XX e XXI secolo promuovendo l’arte moderna e contemporanea. Come scrive Paolo Bolpagni, Savelli fu un uomo del Sud, profondamente legato alle proprie origini, ma volle e seppe ampliare gli orizzonti oltre i confini locali, spostandosi prima a Roma, poi a Parigi e infine a New York. Savelli insegue una spazialità senza precedenti. La continua ricerca dello spazio ha condotto Savelli a una libertà della forma, liberando il quadro della propria sagoma. In occasione dell’apertura esce il catalogo generale della collezione, a cura di Roberto Lacarbonara, pubblicato da Silvana Editoriale.