Nel segno della Musa (Finotti)
“Ritratti d’artista”
Maestri del ‘900
Novello Finotti L'arte come racconto emozionale di un immaginario che interpreta la realtà attraverso il sogno. E da cui scaturiscono creature fantastiche e metamorfiche ai limiti del surreale. Su tutto “un sorprendente anelito del sacro”.
Lei, maestro Finotti, è nato nel ‘39 a Verona, a cavallo di due secoli essenziali per l'arte contemporanea. Quale era il clima che si respirava nel mondo dell'arte agli esordi della sua carriera. E quali le maggiori figure di riferimento del tempo?
«A metà degli anni Cinquanta ero profondamente interessato all’espressione artistica e ad apprenderne le varie tecniche, anche esercitandomi con materiali differenti. Frequentando l’Accademia d’Arte Cignaroli di Verona ho avuto modo di conoscere artisti della mia città, storici dell’arte, critici e di entrare in contatto con varie gallerie. Molto ha contribuito la conoscenza e frequentazione dello scultore Nereo Costantini e lo storico dell’arte Gianlorenzo Mellini, la loro vicinanza mi ha arricchito culturalmente, sia per quanto riguarda la conoscenza e la curiosità per la storia dell’arte e i suoi personaggi, sia perché mi hanno permesso di acquisire una sensibilità e una capacità critica nei confronti della produzione artistica. In quel periodo gli artisti che hanno suscitato in me una grande riflessione sull’arte, sulla loro tecnica sono stati Donatello e per la pittura Caravaggio, con i suoi contrasti drammatici di luci, Van Gogh per la sua forza espressiva e violenta del colore e i Surrealisti, Matta e Francis Bacon, la scultura Romanica con Nicola e Giovanni Pisano, Michelangelo e Canova. E le grandi civiltà del passato come l’arte dell’Antico Egitto. Agli inizi degli anni sessanta ho fruito dell’insostituibile esperienza diretta di Maestri come De Chirico e Magritte, anche questo ha sicuramente influito sul mio linguaggio artistico, che mi ha permesso di avvicinarmi al mondo dei surrealisti, come André Breton. Nel 1963 ho modo di conoscere a Verona, nella fonderia Bonvicini, Alexander Jolas, famosissimo gallerista e collezionista di origine greca, che mi invitò ad Esporre a New York con una mostra personale. Visitando, negli anni successivi, Atene, il Partenone e tutte le meraviglie dell’arte greca, rimasi affascinato dalla forza che queste sculture emanavano, la loro perfezione e quel materiale, il marmo, risvegliarono in me qualcosa di profondo e il desiderio di iniziare a cimentarmi nell’uso di quella materia per realizzare le mie opere. In seguito ci fu il mio trasferimento a Pietrasanta e la frequentazione dei laboratori di Carrara. Qui i miei “maestri” sono stati gli sbozzatori di Carrara, dai quali ho appreso con grande umiltà la base tecnica, che poi ho sviluppato negli anni. Da allora il marmo bianco di Carrara e il nero del Belgio sono diventati i “miei compagni di vita”».
Essere nato in una città di grande tradizione culturale e artistica come la sua quanto, e in cosa, ha inciso nel suo essere artista?
«Verona mi ha sempre interessato e affascinato, passeggiando per le sue vie scoprivo opere di grandissimo pregio e di varie epoche, Romane, del periodo romanico e medioevali. Mi recavo nella Basilica Romanica di San Zeno e mi soffermavo a guardare il maestoso portale in bronzo e con le sue formelle risalenti all’XI secolo, facevo degli schizzi dei rilievi architettonici dei portali e delle sculture e per me era una scuola diretta con il passato».
Ci descrive come prendono corpo le sue opere e quali sono i moventi artistici e la poetica da cui esse nascono?
«Tutte le sculture sono frutto di una mente libera che oscilla tra realtà e sogno, raffigurano un mondo onirico e fantastico: da qui scaturisce il metamorfismo che è alla base del mio lavoro, dove fondo corpi di esseri differenti senza però mai deformarli, ma trasformandoli in un racconto emozionale e narrativo.
Come avviene nella Donna tartaruga, dal cui carapace escono quattro piedi di donna, quasi a voler significare che l’eterno femmineo vive protetto all’interno di una corazza di un animale giunto fino a noi dalla preistoria. è la storia di una donna, di tutte le donne, che si china a giocare con il suo bimbo. L’opera diventa qui il simbolo, la sintesi visiva di una realtà, di una scena reale vista al tramonto passeggiando sulla spiaggia. L’immagine viene fissata in opera, con un richiamo alle origini materne. La mia opera ama alimentarsi da sempre di un senso di mistero e della spiritualità enigmatica orientale. Una nitida visione mi consente di recuperare forme e figure di forte connotazione naturalistica, che vengono ricondotte a composizioni di forte intensità surreale. Nell’opera Omaggio a Shakespeare, opera del 1980/1984, possiamo cogliere il senso di un approfondimento, di una svolta. Un linguaggio legato alla figurazione in chiave surreale, ma aperto alle voci del passato. Ciò che prima si intravvedeva in nuce ora si dispiega con ritmo più articolato, quasi solenne. Qui prevale una prepotente vocazione per una forma classica in chiave moderna. La scultura intitolata Anubi, mitico signore delle necropoli, adorato nell’Antico Egitto, in cui si evidenzia la combinazione fra la staticità dell’animale e la dinamicità della curva formata dal dorso e dalle gambe umane, perfetta sintesi del guardiano presente al momento di transizione tra la morte e la vita. La sua lunga coda diviene colonna vertebrale per la rigenerazione dell’essere umano. Essendo sempre stato attratto dalla cultura egiziana e dai suoi simboli, ho desiderato cimentarmi in questa grande opera, sperimentando la forma dell’innesto. In quest’opera la figure animale si innesta in figure umane creando un intreccio armonico».
Cosa rappresenta per lei la scultura?
«La scultura per me è un esigenza dell’anima, “una maledetta benedizione”, un mezzo che mi permette di esprimere ed esperire le mie inquietudini, le sensazioni più mutevoli, una catarsi emotiva una sublimazione attraverso la materia della mutevolezza dell’uomo. I simboli dei miei lavori sono quelli del nostro tempo: sono incubi, angosce, malinconie, presagi, ma anche illuminazioni positive, amori, palpiti, attese e speranze. E un sorprendente anelito del sacro. Al fine di rappresentare contenuti all’apparenza labili per non dire inafferrabili come i sogni, mi sono forgiato una tecnica adeguata, direi da virtuoso, inizialmente nel bronzo, legno, marmo, fino ad arrivare a sfidare l'uso di materiali ancora più duri come il granito e il basalto. Nella mia scultura alla vitalità si affiancano la costanza dell’invenzione, ovvero l’originalità iconografica dell’opera, la tecnica, anche questa molto personale, tecnica non solo materiale, ma dell’immaginario. Per un artista la scultura diventa un’esigenza, un modo di comunicare, un dialogo costante con se stesso e con gli altri, un mezzo che permette di interrogarsi ed analizzarsi, senza filtri e senza confini. Assume la connotazione di una sintesi interiore, dove pian piano ogni argomentazione trova la sua giusta collocazione all’interno della materia, con l’opera conclusa si ha la chiusura di un cerchio, di un travaglio interiore che ha trovato le sue risposte attraverso la catarsi materica».
Come s’inseriscono le sue opere scultoree nel più ampio discorso dell’organizzazione dello spazio?
«L’allestimento di una mostra richiede sempre all’inizio una studio del luogo e degli spazi, soprattutto se si tratta di un contesto storico. Sono molto attento a collocare le opere in contesti antichi, è importante che l’opera dialoghi con questi spazi nel massimo rispetto possibile dell’ambiente e della sua storia, soprattutto se sono luoghi dove esiste già la presenza di altre opere. Non amo affollare le stanze di sculture, le opere hanno bisogno di essere lette a tutto tondo e respirare, di vivere nell’ambiente in cui sono collocate. Due anni fa ho avuto l’occasione di esporre le mie opere a Matera, tra le pietre millenarie delle chiese rupestri di San Nicola dei Greci e Madonna delle Virtù. é stata un’esperienza unica, cimentarsi nella collocazione delle opere all’interno di quelle cavità secolari, mi sembrava di entrare in un luogo magico e misterioso, ricco di umori ancestrali, c’ era quasi il timore di disturbare quei loculi, che sembravano vivere di vita propria. Alla fine vedere le opere esposte è stata una grande emozione, era incredibile il dialogo che si era creato tra ambiente e scultura. Con attenzione siamo riusciti a creare una retrospettiva di molte opere, nel rispetto del luogo».
Quanto è importante l’uso di un certo materiale piuttosto che un altro?
«A differenza del bronzo che rinfrange la luce, il marmo, se trattato in certo modo assorbe e mette in evidenza passaggi sottili e a volte appena accennati. Nella mia scultura vi è una parte di costante ricerca della luce e la lavorazione del marmo mi permette di fare questo, assottigliando gli spessori, quasi a rendere diafana la materia in alcuni momenti, tutto ciò per arrivare al raggiungimento della spiritualità. C'è idea di raggiungere l’anima della materia, che al contempo conduce alla scoperta della propria. La lavorazione della pietra anche quella più dura assume le connotazioni di una metafora. Il materiale ti fa da specchio, si toglie per arrivare all’essenza, è una strada affascinante, ma infinita. In opere come Levitazione 1997, dove la figura, sembra appunto levitare, la materia prende vita, quasi a spogliarsi per liberarsi ancora di più da peso e costrizioni. Vi è la volontà di rendere la materia un velo trasparente, dove la luce può filtrare senza ostacoli, il tutto senza perdere confini e consistenza. La luce ha vinto sulla materia. Lavorare il marmo, il granito e il basalto diventa un corpo a corpo tra l’artista e il materiale, quasi una lotta tra l’uomo e se stesso. C'è un' insistenza predominante sulla ricerca tecnica come parte inscindibile della ricerca artistica. Cerco di interpretare con uguale maestria sia la spiritualità dei Santi sia i drammi di ogni vita, quanto la carica emotiva o l’ironia dell’eros».
Quali i materiali e le tecniche preferite nella realizzazione delle sue opere?
«Nel mio lavoro seguo la prassi, che chiamo del laboratorio canoviano, cioè l’invenzione magari grafica, modello in creta, poi in gesso, per passare poi al marmo. Sono estremamente convinto che la tecnica sottenga una forte cultura sia teorica, ma soprattutto che deriva dall’esperienza tecnica fatta sul campo con costanza e determinazione. Ho insegnato per un pò di anni al Liceo Artistico di Verona, ed era questa la filosofia, l’insegnamento che volevo lasciare ai mie alunni: dedicarsi all’arte qualunque essa sia con passione, costanza determinazione, solo tramite questi ingredienti è possibile raggiungere un certo grado di padronanza delle varie tecniche e una sicurezza che ti permettono di essere padrone della materia. Ma l’ingrediente più importante è la connessione cuore mente e spirito. E avere sempre una grande curiosità su tutto ciò che ci circonda, non tralasciare nulla ed essere sempre attenti recettivi agli stimoli esterni. Tutto quello che mi circondava e mi circonda é fonte di stimolo e di arricchimento interiore che poi riesco a tradurre e ad esprimere attraverso le mie opere. Posso dire di aver dedicato una vita intera alla ricerca, a carpire i segreti della materia e a come poterla plasmare, quasi a renderla duttile. Riassumerei tutto con tecnica, rigore, passione desiderio, a mio avviso, senza questi elementi l’opera di un artista non può tramettere la sensazione di essere vita».
Maestri del ‘900
Novello Finotti L'arte come racconto emozionale di un immaginario che interpreta la realtà attraverso il sogno. E da cui scaturiscono creature fantastiche e metamorfiche ai limiti del surreale. Su tutto “un sorprendente anelito del sacro”.
Lei, maestro Finotti, è nato nel ‘39 a Verona, a cavallo di due secoli essenziali per l'arte contemporanea. Quale era il clima che si respirava nel mondo dell'arte agli esordi della sua carriera. E quali le maggiori figure di riferimento del tempo?
«A metà degli anni Cinquanta ero profondamente interessato all’espressione artistica e ad apprenderne le varie tecniche, anche esercitandomi con materiali differenti. Frequentando l’Accademia d’Arte Cignaroli di Verona ho avuto modo di conoscere artisti della mia città, storici dell’arte, critici e di entrare in contatto con varie gallerie. Molto ha contribuito la conoscenza e frequentazione dello scultore Nereo Costantini e lo storico dell’arte Gianlorenzo Mellini, la loro vicinanza mi ha arricchito culturalmente, sia per quanto riguarda la conoscenza e la curiosità per la storia dell’arte e i suoi personaggi, sia perché mi hanno permesso di acquisire una sensibilità e una capacità critica nei confronti della produzione artistica. In quel periodo gli artisti che hanno suscitato in me una grande riflessione sull’arte, sulla loro tecnica sono stati Donatello e per la pittura Caravaggio, con i suoi contrasti drammatici di luci, Van Gogh per la sua forza espressiva e violenta del colore e i Surrealisti, Matta e Francis Bacon, la scultura Romanica con Nicola e Giovanni Pisano, Michelangelo e Canova. E le grandi civiltà del passato come l’arte dell’Antico Egitto. Agli inizi degli anni sessanta ho fruito dell’insostituibile esperienza diretta di Maestri come De Chirico e Magritte, anche questo ha sicuramente influito sul mio linguaggio artistico, che mi ha permesso di avvicinarmi al mondo dei surrealisti, come André Breton. Nel 1963 ho modo di conoscere a Verona, nella fonderia Bonvicini, Alexander Jolas, famosissimo gallerista e collezionista di origine greca, che mi invitò ad Esporre a New York con una mostra personale. Visitando, negli anni successivi, Atene, il Partenone e tutte le meraviglie dell’arte greca, rimasi affascinato dalla forza che queste sculture emanavano, la loro perfezione e quel materiale, il marmo, risvegliarono in me qualcosa di profondo e il desiderio di iniziare a cimentarmi nell’uso di quella materia per realizzare le mie opere. In seguito ci fu il mio trasferimento a Pietrasanta e la frequentazione dei laboratori di Carrara. Qui i miei “maestri” sono stati gli sbozzatori di Carrara, dai quali ho appreso con grande umiltà la base tecnica, che poi ho sviluppato negli anni. Da allora il marmo bianco di Carrara e il nero del Belgio sono diventati i “miei compagni di vita”».
Essere nato in una città di grande tradizione culturale e artistica come la sua quanto, e in cosa, ha inciso nel suo essere artista?
«Verona mi ha sempre interessato e affascinato, passeggiando per le sue vie scoprivo opere di grandissimo pregio e di varie epoche, Romane, del periodo romanico e medioevali. Mi recavo nella Basilica Romanica di San Zeno e mi soffermavo a guardare il maestoso portale in bronzo e con le sue formelle risalenti all’XI secolo, facevo degli schizzi dei rilievi architettonici dei portali e delle sculture e per me era una scuola diretta con il passato».
Ci descrive come prendono corpo le sue opere e quali sono i moventi artistici e la poetica da cui esse nascono?
«Tutte le sculture sono frutto di una mente libera che oscilla tra realtà e sogno, raffigurano un mondo onirico e fantastico: da qui scaturisce il metamorfismo che è alla base del mio lavoro, dove fondo corpi di esseri differenti senza però mai deformarli, ma trasformandoli in un racconto emozionale e narrativo.
Come avviene nella Donna tartaruga, dal cui carapace escono quattro piedi di donna, quasi a voler significare che l’eterno femmineo vive protetto all’interno di una corazza di un animale giunto fino a noi dalla preistoria. è la storia di una donna, di tutte le donne, che si china a giocare con il suo bimbo. L’opera diventa qui il simbolo, la sintesi visiva di una realtà, di una scena reale vista al tramonto passeggiando sulla spiaggia. L’immagine viene fissata in opera, con un richiamo alle origini materne. La mia opera ama alimentarsi da sempre di un senso di mistero e della spiritualità enigmatica orientale. Una nitida visione mi consente di recuperare forme e figure di forte connotazione naturalistica, che vengono ricondotte a composizioni di forte intensità surreale. Nell’opera Omaggio a Shakespeare, opera del 1980/1984, possiamo cogliere il senso di un approfondimento, di una svolta. Un linguaggio legato alla figurazione in chiave surreale, ma aperto alle voci del passato. Ciò che prima si intravvedeva in nuce ora si dispiega con ritmo più articolato, quasi solenne. Qui prevale una prepotente vocazione per una forma classica in chiave moderna. La scultura intitolata Anubi, mitico signore delle necropoli, adorato nell’Antico Egitto, in cui si evidenzia la combinazione fra la staticità dell’animale e la dinamicità della curva formata dal dorso e dalle gambe umane, perfetta sintesi del guardiano presente al momento di transizione tra la morte e la vita. La sua lunga coda diviene colonna vertebrale per la rigenerazione dell’essere umano. Essendo sempre stato attratto dalla cultura egiziana e dai suoi simboli, ho desiderato cimentarmi in questa grande opera, sperimentando la forma dell’innesto. In quest’opera la figure animale si innesta in figure umane creando un intreccio armonico».
Cosa rappresenta per lei la scultura?
«La scultura per me è un esigenza dell’anima, “una maledetta benedizione”, un mezzo che mi permette di esprimere ed esperire le mie inquietudini, le sensazioni più mutevoli, una catarsi emotiva una sublimazione attraverso la materia della mutevolezza dell’uomo. I simboli dei miei lavori sono quelli del nostro tempo: sono incubi, angosce, malinconie, presagi, ma anche illuminazioni positive, amori, palpiti, attese e speranze. E un sorprendente anelito del sacro. Al fine di rappresentare contenuti all’apparenza labili per non dire inafferrabili come i sogni, mi sono forgiato una tecnica adeguata, direi da virtuoso, inizialmente nel bronzo, legno, marmo, fino ad arrivare a sfidare l'uso di materiali ancora più duri come il granito e il basalto. Nella mia scultura alla vitalità si affiancano la costanza dell’invenzione, ovvero l’originalità iconografica dell’opera, la tecnica, anche questa molto personale, tecnica non solo materiale, ma dell’immaginario. Per un artista la scultura diventa un’esigenza, un modo di comunicare, un dialogo costante con se stesso e con gli altri, un mezzo che permette di interrogarsi ed analizzarsi, senza filtri e senza confini. Assume la connotazione di una sintesi interiore, dove pian piano ogni argomentazione trova la sua giusta collocazione all’interno della materia, con l’opera conclusa si ha la chiusura di un cerchio, di un travaglio interiore che ha trovato le sue risposte attraverso la catarsi materica».
Come s’inseriscono le sue opere scultoree nel più ampio discorso dell’organizzazione dello spazio?
«L’allestimento di una mostra richiede sempre all’inizio una studio del luogo e degli spazi, soprattutto se si tratta di un contesto storico. Sono molto attento a collocare le opere in contesti antichi, è importante che l’opera dialoghi con questi spazi nel massimo rispetto possibile dell’ambiente e della sua storia, soprattutto se sono luoghi dove esiste già la presenza di altre opere. Non amo affollare le stanze di sculture, le opere hanno bisogno di essere lette a tutto tondo e respirare, di vivere nell’ambiente in cui sono collocate. Due anni fa ho avuto l’occasione di esporre le mie opere a Matera, tra le pietre millenarie delle chiese rupestri di San Nicola dei Greci e Madonna delle Virtù. é stata un’esperienza unica, cimentarsi nella collocazione delle opere all’interno di quelle cavità secolari, mi sembrava di entrare in un luogo magico e misterioso, ricco di umori ancestrali, c’ era quasi il timore di disturbare quei loculi, che sembravano vivere di vita propria. Alla fine vedere le opere esposte è stata una grande emozione, era incredibile il dialogo che si era creato tra ambiente e scultura. Con attenzione siamo riusciti a creare una retrospettiva di molte opere, nel rispetto del luogo».
Quanto è importante l’uso di un certo materiale piuttosto che un altro?
«A differenza del bronzo che rinfrange la luce, il marmo, se trattato in certo modo assorbe e mette in evidenza passaggi sottili e a volte appena accennati. Nella mia scultura vi è una parte di costante ricerca della luce e la lavorazione del marmo mi permette di fare questo, assottigliando gli spessori, quasi a rendere diafana la materia in alcuni momenti, tutto ciò per arrivare al raggiungimento della spiritualità. C'è idea di raggiungere l’anima della materia, che al contempo conduce alla scoperta della propria. La lavorazione della pietra anche quella più dura assume le connotazioni di una metafora. Il materiale ti fa da specchio, si toglie per arrivare all’essenza, è una strada affascinante, ma infinita. In opere come Levitazione 1997, dove la figura, sembra appunto levitare, la materia prende vita, quasi a spogliarsi per liberarsi ancora di più da peso e costrizioni. Vi è la volontà di rendere la materia un velo trasparente, dove la luce può filtrare senza ostacoli, il tutto senza perdere confini e consistenza. La luce ha vinto sulla materia. Lavorare il marmo, il granito e il basalto diventa un corpo a corpo tra l’artista e il materiale, quasi una lotta tra l’uomo e se stesso. C'è un' insistenza predominante sulla ricerca tecnica come parte inscindibile della ricerca artistica. Cerco di interpretare con uguale maestria sia la spiritualità dei Santi sia i drammi di ogni vita, quanto la carica emotiva o l’ironia dell’eros».
Quali i materiali e le tecniche preferite nella realizzazione delle sue opere?
«Nel mio lavoro seguo la prassi, che chiamo del laboratorio canoviano, cioè l’invenzione magari grafica, modello in creta, poi in gesso, per passare poi al marmo. Sono estremamente convinto che la tecnica sottenga una forte cultura sia teorica, ma soprattutto che deriva dall’esperienza tecnica fatta sul campo con costanza e determinazione. Ho insegnato per un pò di anni al Liceo Artistico di Verona, ed era questa la filosofia, l’insegnamento che volevo lasciare ai mie alunni: dedicarsi all’arte qualunque essa sia con passione, costanza determinazione, solo tramite questi ingredienti è possibile raggiungere un certo grado di padronanza delle varie tecniche e una sicurezza che ti permettono di essere padrone della materia. Ma l’ingrediente più importante è la connessione cuore mente e spirito. E avere sempre una grande curiosità su tutto ciò che ci circonda, non tralasciare nulla ed essere sempre attenti recettivi agli stimoli esterni. Tutto quello che mi circondava e mi circonda é fonte di stimolo e di arricchimento interiore che poi riesco a tradurre e ad esprimere attraverso le mie opere. Posso dire di aver dedicato una vita intera alla ricerca, a carpire i segreti della materia e a come poterla plasmare, quasi a renderla duttile. Riassumerei tutto con tecnica, rigore, passione desiderio, a mio avviso, senza questi elementi l’opera di un artista non può tramettere la sensazione di essere vita».