Pier Toffoletti

La carezza fatta di roccia

- di Giorgio Barassi -


Vieni  tu  dal  cielo  profondo  o  sorgi  dall’abisso,
Bellezza?
(Charles Baudelaire)

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Lo sguardo rivolto a Nordest. Le cime che delimitano i confini con la Slovenia, il Matajur e il nome tremendo di Caporetto a tiro d’occhiata. Le alture più vicine, il Monte Stella a un passo. Il Natisone che riga come una lunga lacrima le terre lì attorno. Tutto ha un contorno permanente e solenne, il grigio delle pietre delle alte vette. Così sono i sassi attorno e dentro al fiume. Mette serenità, induce alla contemplazione. È un non-colore, eppure vive e fa vivere uno scenario che si rallegra del verde dei prati e degli alberi, esalta le acque azzurrine dei laghetti, fa da spalla ai terreni di Picolit, Ribolla gialla e Tazzelenghe. La radice del dipingere di Pier Toffoletti è tutta lì, nelle terre di Udine, la sua città. È anche nel suo posato e garbatissimo proporsi, mai tronfio dei successi, tantissimi, raggiunti in una carriera splendida, mai tormentosa e semmai tormentata dalla sua sensibilità, che lo ha costretto a reagire come i friulani sanno fare: a testa bassa ma con una caparbietà silenziosa, fatta di fatica e consapevolezza.

Quel grigio, che da sempre popola i suoi nobili dipinti, lo ha dentro il cuore e non se ne distacca nemmeno volendolo. È la sua cifra, e lui l’ha resa così protagonista da farla diventare una delle note, la prevalente, che lo distinguono. Lì dentro azzarda con successo il bagliore di gialli e di verdi liberi nel campo dell’opera, presenta pennellate da autentico inventore e sciabolate di luci romantiche e fascinose, correda di arancione garbato visi di madonne popolari. Perché quello che anima Pier Toffoletti è comunque e sempre la bellezza. Volti incantati di donne che diventano più belle nei corpi e negli sguardi grazie ad una indagine puntigliosa, una tecnica sopraffina e quell’anima candida che si legge nei sorrisi e nelle parole pacate di uno degli autori della pittura italiana più intensi ed apprezzati. Ha inventato, Toffoletti, e non poco. Ha inventato quel modo singolare di togliere dalla quotidianità le donne che animano il mondo e rivestirle di quel velo sottile di raffinatezza un po’ malinconica ma tanto efficace. Ha inventato una maniera di dipingere che ha compreso interventi con altri materiali, per molti distantissimi dalla pittura e per lui condimento di una operazione artistica complessa e fortemente efficace. Ha inventato, e gliene sia dato merito, la sapiente dignità di tacere delle affermazioni.
Che per molti sarebbero strumento di spavalderia e per lui sono solo elementi costitutivi.

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Quando è ora di svegliare la platea dal torpore del silenzio che l’ammirazione provoca, accende di colori i suoi quadri, li rende allegri e popolati da tinte schiette e accuratamente calibrate, senza fragore. E lì la natura è protagonista. Foglie, rametti, cascate improvvise di tinte che solo l’esperto azzarda con successo. Il suo percorso è talmente pieno di studio, sperimentazioni e varianti, da mettere in difficoltà chiunque voglia raccontarlo per intero. Natura e volti, oggi. Ma dentro, irrimediabilmente, una dotazione di rispetto per il creato e di ipersensibilità cronica che emergono col solo potere di uno sguardo, di un gesto, di un nudo elegante, passionale e travolgente senza indugi in esaltazioni eccessivamente iperrealiste. Tutto avviene come soffuso da una dolcezza che è proprio il contrario della spigolosità dei monti. Pose inconsuete di modelle terrene, mani aperte in gesti di protezione e timore insieme. Toffoletti sa che il risultato delle sue opere è una eleganza inconfondibile, alla quale ha educato, con le affermazioni all’estero, perfino i popoli di là dai due Oceani, abituati a ben altro. Ovunque, il soffio leggero e deciso di una pittura unica è percepito come il racconto di un bello lieve e silenzioso, ma possente e puntuativo. Fissa, cioè, la sensibilità e la dolcezza come pietre miliari di una lunga via fatta di pittura, ricerca, studio, indagine e passione.

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Ogni sua opera riesce a darci l’idea di una raffinata soluzione che ad altri non verrebbe in mente. E perciò scegliamo di prendere un brano della cronaca di una storica partita di calcio, scritta da un altrettanto storico cultore, in parti uguali, del pallone e della lingua italiana. Quel Gianni Brera che raccontando in un memorabile articolo il quarto gol italiano allo stadio Atzeca in Italia-Germania 4-3, 17 giugno 1970, definisce l’evento e l’eroe di turno scomodando la mitologia a lui cara. “…
Questo è dunque avvenuto: al giovane eroe ha ridato la lancia Pallade Atena figlia di Giove Ottimo Massimo…”. Il giovane eroe era, nel caso di specie, Gianni Rivera da Alessandria. Crediamo che quella lancia sia, per quel che riguarda Madama Pittura, saldamente nelle mani di Pier Toffoletti da Udine, parimenti definibile in lessico breriano, Pallido Prence. Cioè uno che ha, ad onta dell’aspetto gracile e della andatura anonima, quel lampo di genio illuminante ed assoluto che lo differisce da tutti e ne determina l’unicità. Ma magari Toffoletti non ne sa di pallone, e ci spedisce a quel paese senza una sola parola, con la consueta taciturna consapevolezza di essere capace di cose ad altri impossibili. Fa niente, rimane unico nella sua singolarità di pittore di gran classe.



Milano, Napoli, Miami, Arezzo, Venezia, Yokohama, New, York, Madrid, molte capitali europee. Davvero elencare i passi di una carriera piena di successi è opera difficile, ma serve a capire l’internazionalità di un linguaggio comprensibile, immediato seppur complesso nella sua costruzione. E nella sua biografia, un dato emerge chiaramente. La sua passione per la speleologia, quell’infilarsi in anfratti impossibili e trarre l’esperienza più intima del contatto totale con la roccia, con quella pietra grigia che sa essere materna e matrigna. Quella roccia che gli ha dato gioie e traumi segnanti, ma che gli consentito di indagare il respiro della terra, la pulsione di ciò su cui mettiamo i piedi, fortunati ed a volte ingrati figli. La rivista giapponese Art Pictorial, nel 2004, riesce laddove nessun altro può. Gli fa descrivere, pratica che con un friulano silenzioso è quasi impossibile, l’origine ed il fine della prevalenza di quelle figure femminili nelle sue opere. Toffoletti scioglie il suo garbo e dichiara che quella bellezza è la bellezza più ampia della natura, che può abbandonare la schermatura di come la vediamo ed offrirsi nuda alla interpretazione di chi la ama davvero. Il contatto con la roccia ha fatto il suo corso. La poetica di Toffoletti, scandagliata da mille angolazioni, diventa ancor più fruibile e gradita.
Ci volevano la pazienza e l’ingegno nipponico, spiritualità elevata e pragmatismo assoluto, per convincere un rocciatore romantico a dischiudere la corazza e far emergere ancor più bellezza di quanta non ne trapeli già abbondantemente dai suoi volti e dai suoi corpi ricchi di umana tenerezza e di sapiente riconoscenza verso la madre terra.
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