Goodbye Perestrojka
Ci sono esposizioni che fanno storia, intessute di valori umani e pregnanti di esistenza, che lasciano un segno indelebile e non vanno dimenticate neppure quando finiscono. “Goodbye Perestrojka” è una di queste, una porta dischiusa che si è affacciata come inedito nel panorama nazionale e non solo, e che si auspica possa essere un impulso a continuare a diffondere un’arte dai contenuti non soltanto estetici ma vibrante di pulsazioni emotive ed estremamente significante.
La mostra, che si è tenuta dal 2 dicembre 2017 al 28 gennaio 2018 presso la galleria Spazzapan di Gradisca d’Isonzo, ha svelato uno scrigno di 100 opere di artisti provenienti dall’ex Unione Sovietica e ha rappresentato una prima esclusiva in Italia sull’argomento, seguita in passato soltanto dall’esposizione “Back in the USSR. Gli eredi dell’arte non ufficiale”, dedicata alla memoria di Leonid Talochkin, presentata a Venezia nel 2009 presso lo Spazio Mondadori. Entrambi gli eventi sono stati curati da Vladislav Shabalin, che nel 1988 curò a Donetsk, nella regione del Donbass, la prima esposizione pubblica di arte non ufficiale in Ucraina e diresse l’emblematico esempio della Galleria Avangard inaugurata nello stesso anno.
Come ha specificato l’assessore regionale alla cultura Gianni Torrenti nel suo testo introduttivo pubblicato sul catalogo della mostra “Goodbye Perestrojka”: «Le rivoluzioni nascono da un sogno e ogni sogno viene infranto dal tempo e dai suoi mutamenti ineludibili».
Vladislav Shabalin, nella sua duplice veste di curatore ed artista, è l’emblema del cammino e di questo percorso umano e visivo, nonché testimone diretto di un’epoca travagliata e repressiva: «Sono nato a Donetsk, mi sono cimentato nella pittura surrealista, mentre il mio carattere ribelle alimentato dall’educazione ricevuta, mi ha condotto verso gli ambienti hippy, che esprimevano un colorato e pacifico dissenso nei confronti di uno Stato ostile alla libertà di espressione. Non poteva finire bene. All’epoca la repressione del dissenso prevedeva il licenziamento, la cacciata dalle università, l’arresto, la privazione della cittadinanza e la detenzione in gulag o in ospedale psichiatrico, e proprio quest’ultimo è diventato la mia prigione. Dopo un mese di reclusione la commissione medica dichiarò il fallimento delle “cure” e mi fu timbrato un passaporto con la diagnosi di schizofrenia. È paradossale ma questo timbro permetteva di non nascondersi più, di essere sé stessi, di esprimere il proprio pensiero e coltivare la propria arte. Per il regime, insomma ero matto. E sono diventato una specie di intoccabile. Il rovescio della medaglia era che con quella diagnosi era quasi impossibile trovare un lavoro dignitoso». Durante il regime molti dissidenti furono bollati con una particolare forma di schizofrenia definita “Torbida”, latente, un’attribuzione ambigua per reprimere qualsiasi tipo di voce non allineata. Si tratta di diagnosi fittizie non basate su alcun tipo di sintomi che dovevano giustificare, con la compiacenza della psichiatria assoggettata al potere, la repressione della libertà e l’intento del regime a sedare qualsiasi atto ritenuto socialmente pericoloso che poteva minare il controllo della società.
Jean-Paul Sartre nella prefazione al saggio “Ragione e Violenza” di Laing e Cooper scrisse che la malattia mentale poteva essere: «Una via d’uscita che il libero organismo, nella sua unità totale, inventa per potere vivere una situazione invivibile»; un pensiero calzante che descrive appieno il sentimento di sopravvivenza a cui si aggrappavano Vladislav Shabalin e molti altri artisti reclusi e torturati negli ospedali psichiatrici e che malgrado le barbarie riuscivano a trovare nell’arte quella via d’uscita che l’uomo libero inventa per vivere una situazione invivibile. Tra le opere esposte molte rivelano nella loro espressività questa forza oltre la sofferenza che si libra aldilà dei soprusi e rimane irriducibile nonostante le privazioni, perché l’arte è, per sua natura, libera, in grado di descrivere ciò che nessuna parola potrai mai raccontare e capace di anticipare gli eventi. C’è un’opera di Tatiana Lysenko trasudante di umanità, che esprime appieno la frustrazione ed il dolore di chi rimase imprigionato tra le mura dei manicomi dopo aver subito “cure” forzate. È intitolata “Boy”, il ragazzo. Ritrae un uomo ripiegato su se stesso, con lo sguardo rivolto verso un orizzonte oramai lontano, istituzionalizzato, alienato dai farmaci, sofferente: la parte inferiore del corpo è nuda, ad evidenziare la spoliazione fisica e morale a cui le persone vennero sottoposte in quelle che Erving Goffman aveva definito “Istituzioni Totali”; luoghi segreganti che vennero eretti circondati da mura concrete e immateriali, non solo nei regimi ma in ogni dove in cui viene messa a tacere la libertà. Innumerevoli persone subirono la violazione della propria dignità umana, e chi non riuscì a sopportare le atrocità vi trovò la morte. Un passato non lontano che riecheggia ancor oggi, basti pensare che proprio in tempi recenti, nella moderna Russia di Putin, la psichiatria per i dissidenti è stata “riabilitata” sottoponendo a cure forzate coloro che manifestano idee diverse rispetto al governo, una pratica che sembrava scomparsa dagli anni della Perestrojka di Gorbaciov e con la fine dell’Urss. Il quadro di Tatiana Lysenko, estremamente attuale, racchiude nel soggetto rappresentato le ferite laceranti che non solo quell’uomo ma un’intera umanità ha subito e subisce tuttora nei contesti di restrizione qualsiasi essi siano.
Le opere in esposizione, attraverso i loro incisivi e stupefacenti linguaggi, si fanno portatrici di una cultura che va dai periodi bui dell’Unione Sovietica ad oggi, passando per la Perestrojka, traducibile con il termine “ristrutturazione”: un periodo che veniva vissuto come un vento del mutamento, dominato dall’entusiasmo politico, dal fermento creativo di coloro i quali avevano vissuto sulla propria pelle, in primis intellettuali ed artisti, oscurantismo e tormento. Un’ondata di libertà, a cui fa eco la parola “Glasnost” (“trasparenza”) che indica l'insieme delle riforme attuate da Gorbaciov a partire dal 1986, con l'obiettivo di combattere la corruzione e i privilegi del sistema politico sovietico. Ma come sottolinea nel suo testo a corredo del catalogo della mostra Yulia Lebedeva, storica dell’arte nonché curatrice del museo “Other Art” presso l’Università Statale Russa degli Studi Umanistici di Mosca: «La speranza di uscire dalla palude della “Stagnazione Brezneviana” infondeva nelle persone un ottimismo quasi infantile […] Ciò che la Perestrojka ha creato la Perestrojka ha distrutto. Con la fine dell’Unione Sovietica e il conseguente crollo dell’economia, le speranze di un futuro più luminoso non si sono materializzate. La Russia e gli stati satelliti sono sprofondati nella crisi e la democrazia tanto attesa è diventata quasi anarchia».
C’è un’immagine che accompagna il visitatore nell’intero percorso espositivo ed è quella della porta possente e ferrosa di un bunker: una presenza reale nonché metafora di questi accadimenti, ma anche una porta da dischiudere sul mondo per chi la sa aprire. È la porta di un rifugio bellico sotterraneo costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale in cui Vladislav Shabalin nel 1988 ha creato un centro espositivo denominato non a caso “Avangard” nella sua città natale, a Donetsk, nella regione del Donbass, magistralmente descritta dal cinema di avanguardia di Dziga Vertov in “Sinfonia del Donbass” (Entusiasmo) del 1930 in cui il regista, attraverso il linguaggio delle inquadrature rivoluzionarie della macchina da presa, ha saputo restituirne al mondo suoni, espressività dei volti, scenari, emozioni e momenti nei tragitti dei destini umani che passano e si intrecciano come vite tra i binari, dominate dallo scorrere del tempo, dal lavoro dispiegato tra sudore e polvere, dal farsi della storia. Una terra di miniere, di lavoro polveroso, di fatica, un luogo lacerato da drammi umani e contrasti dove ancor oggi gli operai continuano a morire sottoterra durante le estrazioni e che in seguito al crollo dell’Unione Sovietica è divenuto scenario di tragici conflitti segnato, dal 2014, da una guerra civile ancora in corso che ha già causato innumerevoli vittime fra i soldati e la popolazione.
Sarebbe riduttivo tentare di descrivere cosa è stato lo spazio espositivo “Avangard” di Shabalin, ma è stato tutto questo ed altro ancora. In quegli anni vi fu l’incontro con Leonid Talochkin, il più noto collezionista dell’arte non convenzionale, che contribuì alla promozione dell’arte contemporanea a Donetsk. Un bunker crocevia di creatività in cui si mescolavano reminiscenze artistiche di varie correnti, le avanguardie, il cubismo, il futurismo, che permangono come voci nelle opere esposte. Dopo gli anni di fermento della galleria sotterranea arrivarono altre difficoltà e Shabalin subì delle richieste estorsive da parte della malavita locale. Costretto ad abbandonare la sua terra, si trasferisce in Italia portando con sé esperienze e ricordi nonché quell’amore per l’arte che in fondo è anche Vita, sentimento indissolubile che permane come trait d’union in ogni sua sentita esposizione. Nel 2002, quando ormai si era allontanato dalla sua terra natale, morì Leonid Talochkin che prima della scomparsa era tuttavia riuscito ad inaugurare nella città di Mosca, presso l’università Statale degli Studi Umanistici, il sogno del museo “Other Art”, “Arte altra”, non convenzionale, che racchiude la vasta ed intensa collezione di Talochkin abbracciante il periodo storico dal 1950 al 1980.
“Dream of a Red Army Soldier” (“Sogno di un soldato dell’armata rossa”), di Malkhaz Datukishvili, ritrae un soldato in primo piano con il volto bendato per le ferite e la bocca che appare saturata, serrata. Volti e opere di Alexander Bondarenko rievocano le forme del cubismo e si svelano nella potenza espressiva della decostruzione; in “Garbage”, (“Ciarpame”) la duplicità dei volti, drammaticamente significativi, rammentano, nella postura, la divinità del Giano Bifronte e paiono volgersi al passato e al futuro in una corporeità infissa nel presente. Lo sguardo dei soggetti è tuttavia proteso verso il basso anziché all’altrove, quasi ad identificarsi in una sommessa sofferenza gravida di pathos. Altrettanto drammatiche sono le posture umane di Vitalij Manuilov, una pittura di carattere esistenziale; in “A Life”, (“Una Vita”) ritrae un uomo ignudo curvo su sé stesso che si copre le orecchie nell’atto angoscioso di proteggersi da minacce fisiche e morali. Vladimir Kharakoz sorprende per la “dinamicità sovrappositiva” simile, per potenza espressiva, a quella di Francis Bacon. Dinamismo che si evince altresì nelle opere Ludmila Etenko, in cui permangono aneliti del futurismo. L’ermetica pittura di Genadij Olimpiuk si lascia interpretare tramite l’empatia, permea l’inconscio e rimane velata, straordinariamente misteriosa: occorre cercare le figure celate nella potenza espressiva inglobante dei colori. “Apparition” (“Apparizione”), di Vladimir Veltman, rievoca, nella poetica del volto, l’enigmaticità della Gioconda, che si staglia oltre la fissità della cornice in una contemporaneità frammentata e acquisisce tridimensionalità e attualità grazie alle incursioni materiche. La “metamorfosi ancestrale” dei corpi in Oleg Chernykh trasmette una narrazione emozionale istintiva che si dipana nel vissuto umano in cui albergano inquietudini ed emozioni. La “pitto-scrittura” di Sergej Barannik è data da un incatenarsi di segni a grafite che rimandano ad infinite significazioni, in cui ogni singolo tratto, quasi fosse un pittogramma, veicola una realtà espressiva che da singola diviene molteplice nella preziosa totalità compositiva. Il suggestivo “sur- realismo simbolico” di Vladislav Shabalin si configura come una metafora esistenziale che, tra contrasti e visioni, si fa leggere nel silenzio interiore dell’anima. È in questa sospensione, scevra da assordanti rumori, che occorre soffermarsi per riguardare ogni infinitesimale rimando a qualcosa di altro in un continuum di linee tracciate con elaborazione e perizia che si susseguono senza quasi mai separarsi, stagliandosi su campiture monocrome, spesso dominate dal rosso o dal nero, e narrano un universo reale ed al contempo immaginifico che nonostante tutto è ancora proteso ad un sentimento di speranza, di attesa. Vladislav Shabalin racchiude in sé “l’essenza della vita di artista”, esteta, curatore ed intellettuale, sempre in viaggio, non solo tra i luoghi che ha fisicamente attraversato, ma anche per quella sua straordinaria capacità di proiettarsi verso l’altrove, mantenendo, come frame di ricordi vissuti che scorrono tra le pieghe del pensiero, il legame indissolubile con l’esperienza del trascorso, portando con sè i volti e le persone che hanno fatto parte di quel profondo cammino umano ed esistenziale.
Il filosofo Martin Heidegger nel saggio “L’origine dell’opera d’arte”, nella sua personale e non sempre condivisa interpretazione del quadro di van Gogh raffigurante delle scarpe che egli attribuisce ad una contadina, si sofferma sulla verità dell’arte e sulla capacità di trasportare un mondo: «Dallo scuro dell’involto consumato delle scarpe, si protende la fatica dei ritmi del lavoro. Nella corposa ruvidità della calzatura si rafferma la durezza dei passi tra i solchi, tesi e sempre uguali, del campo battuto da un vento tagliente. Sul cuoio restano la freschezza e l’umidità del terreno. Sotto le suole si fa incontro la singolarità del sentiero campestre all’imbrunire. Nelle scarpe vibra il richiamo scabro della terra, il maturare silenzioso delle sue messi e il suo impenetrabile negarsi quando essa si mostra nell’incoltezza del campo invernale. In questo attrezzo, respirano l’apprensione, senza lamenti, per la sicurezza del pane, la gioia, senza parole, per lo stato di bisogno nuovamente superato, il trepidare nell’imminenza della nascita e il tremare nell’avvolgente minaccia della morte».
L’arte di questi artisti non lascia indenni da emozioni, passa dalle corde del cuore, le fa vibrare e richiama ad osservare quel “mondo perduto” che trattiene e trasporta con sé, in cui occorre immergersi ed ascoltare.
La mostra, che si è tenuta dal 2 dicembre 2017 al 28 gennaio 2018 presso la galleria Spazzapan di Gradisca d’Isonzo, ha svelato uno scrigno di 100 opere di artisti provenienti dall’ex Unione Sovietica e ha rappresentato una prima esclusiva in Italia sull’argomento, seguita in passato soltanto dall’esposizione “Back in the USSR. Gli eredi dell’arte non ufficiale”, dedicata alla memoria di Leonid Talochkin, presentata a Venezia nel 2009 presso lo Spazio Mondadori. Entrambi gli eventi sono stati curati da Vladislav Shabalin, che nel 1988 curò a Donetsk, nella regione del Donbass, la prima esposizione pubblica di arte non ufficiale in Ucraina e diresse l’emblematico esempio della Galleria Avangard inaugurata nello stesso anno.
Come ha specificato l’assessore regionale alla cultura Gianni Torrenti nel suo testo introduttivo pubblicato sul catalogo della mostra “Goodbye Perestrojka”: «Le rivoluzioni nascono da un sogno e ogni sogno viene infranto dal tempo e dai suoi mutamenti ineludibili».
Vladislav Shabalin, nella sua duplice veste di curatore ed artista, è l’emblema del cammino e di questo percorso umano e visivo, nonché testimone diretto di un’epoca travagliata e repressiva: «Sono nato a Donetsk, mi sono cimentato nella pittura surrealista, mentre il mio carattere ribelle alimentato dall’educazione ricevuta, mi ha condotto verso gli ambienti hippy, che esprimevano un colorato e pacifico dissenso nei confronti di uno Stato ostile alla libertà di espressione. Non poteva finire bene. All’epoca la repressione del dissenso prevedeva il licenziamento, la cacciata dalle università, l’arresto, la privazione della cittadinanza e la detenzione in gulag o in ospedale psichiatrico, e proprio quest’ultimo è diventato la mia prigione. Dopo un mese di reclusione la commissione medica dichiarò il fallimento delle “cure” e mi fu timbrato un passaporto con la diagnosi di schizofrenia. È paradossale ma questo timbro permetteva di non nascondersi più, di essere sé stessi, di esprimere il proprio pensiero e coltivare la propria arte. Per il regime, insomma ero matto. E sono diventato una specie di intoccabile. Il rovescio della medaglia era che con quella diagnosi era quasi impossibile trovare un lavoro dignitoso». Durante il regime molti dissidenti furono bollati con una particolare forma di schizofrenia definita “Torbida”, latente, un’attribuzione ambigua per reprimere qualsiasi tipo di voce non allineata. Si tratta di diagnosi fittizie non basate su alcun tipo di sintomi che dovevano giustificare, con la compiacenza della psichiatria assoggettata al potere, la repressione della libertà e l’intento del regime a sedare qualsiasi atto ritenuto socialmente pericoloso che poteva minare il controllo della società.
Jean-Paul Sartre nella prefazione al saggio “Ragione e Violenza” di Laing e Cooper scrisse che la malattia mentale poteva essere: «Una via d’uscita che il libero organismo, nella sua unità totale, inventa per potere vivere una situazione invivibile»; un pensiero calzante che descrive appieno il sentimento di sopravvivenza a cui si aggrappavano Vladislav Shabalin e molti altri artisti reclusi e torturati negli ospedali psichiatrici e che malgrado le barbarie riuscivano a trovare nell’arte quella via d’uscita che l’uomo libero inventa per vivere una situazione invivibile. Tra le opere esposte molte rivelano nella loro espressività questa forza oltre la sofferenza che si libra aldilà dei soprusi e rimane irriducibile nonostante le privazioni, perché l’arte è, per sua natura, libera, in grado di descrivere ciò che nessuna parola potrai mai raccontare e capace di anticipare gli eventi. C’è un’opera di Tatiana Lysenko trasudante di umanità, che esprime appieno la frustrazione ed il dolore di chi rimase imprigionato tra le mura dei manicomi dopo aver subito “cure” forzate. È intitolata “Boy”, il ragazzo. Ritrae un uomo ripiegato su se stesso, con lo sguardo rivolto verso un orizzonte oramai lontano, istituzionalizzato, alienato dai farmaci, sofferente: la parte inferiore del corpo è nuda, ad evidenziare la spoliazione fisica e morale a cui le persone vennero sottoposte in quelle che Erving Goffman aveva definito “Istituzioni Totali”; luoghi segreganti che vennero eretti circondati da mura concrete e immateriali, non solo nei regimi ma in ogni dove in cui viene messa a tacere la libertà. Innumerevoli persone subirono la violazione della propria dignità umana, e chi non riuscì a sopportare le atrocità vi trovò la morte. Un passato non lontano che riecheggia ancor oggi, basti pensare che proprio in tempi recenti, nella moderna Russia di Putin, la psichiatria per i dissidenti è stata “riabilitata” sottoponendo a cure forzate coloro che manifestano idee diverse rispetto al governo, una pratica che sembrava scomparsa dagli anni della Perestrojka di Gorbaciov e con la fine dell’Urss. Il quadro di Tatiana Lysenko, estremamente attuale, racchiude nel soggetto rappresentato le ferite laceranti che non solo quell’uomo ma un’intera umanità ha subito e subisce tuttora nei contesti di restrizione qualsiasi essi siano.
Le opere in esposizione, attraverso i loro incisivi e stupefacenti linguaggi, si fanno portatrici di una cultura che va dai periodi bui dell’Unione Sovietica ad oggi, passando per la Perestrojka, traducibile con il termine “ristrutturazione”: un periodo che veniva vissuto come un vento del mutamento, dominato dall’entusiasmo politico, dal fermento creativo di coloro i quali avevano vissuto sulla propria pelle, in primis intellettuali ed artisti, oscurantismo e tormento. Un’ondata di libertà, a cui fa eco la parola “Glasnost” (“trasparenza”) che indica l'insieme delle riforme attuate da Gorbaciov a partire dal 1986, con l'obiettivo di combattere la corruzione e i privilegi del sistema politico sovietico. Ma come sottolinea nel suo testo a corredo del catalogo della mostra Yulia Lebedeva, storica dell’arte nonché curatrice del museo “Other Art” presso l’Università Statale Russa degli Studi Umanistici di Mosca: «La speranza di uscire dalla palude della “Stagnazione Brezneviana” infondeva nelle persone un ottimismo quasi infantile […] Ciò che la Perestrojka ha creato la Perestrojka ha distrutto. Con la fine dell’Unione Sovietica e il conseguente crollo dell’economia, le speranze di un futuro più luminoso non si sono materializzate. La Russia e gli stati satelliti sono sprofondati nella crisi e la democrazia tanto attesa è diventata quasi anarchia».
C’è un’immagine che accompagna il visitatore nell’intero percorso espositivo ed è quella della porta possente e ferrosa di un bunker: una presenza reale nonché metafora di questi accadimenti, ma anche una porta da dischiudere sul mondo per chi la sa aprire. È la porta di un rifugio bellico sotterraneo costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale in cui Vladislav Shabalin nel 1988 ha creato un centro espositivo denominato non a caso “Avangard” nella sua città natale, a Donetsk, nella regione del Donbass, magistralmente descritta dal cinema di avanguardia di Dziga Vertov in “Sinfonia del Donbass” (Entusiasmo) del 1930 in cui il regista, attraverso il linguaggio delle inquadrature rivoluzionarie della macchina da presa, ha saputo restituirne al mondo suoni, espressività dei volti, scenari, emozioni e momenti nei tragitti dei destini umani che passano e si intrecciano come vite tra i binari, dominate dallo scorrere del tempo, dal lavoro dispiegato tra sudore e polvere, dal farsi della storia. Una terra di miniere, di lavoro polveroso, di fatica, un luogo lacerato da drammi umani e contrasti dove ancor oggi gli operai continuano a morire sottoterra durante le estrazioni e che in seguito al crollo dell’Unione Sovietica è divenuto scenario di tragici conflitti segnato, dal 2014, da una guerra civile ancora in corso che ha già causato innumerevoli vittime fra i soldati e la popolazione.
Sarebbe riduttivo tentare di descrivere cosa è stato lo spazio espositivo “Avangard” di Shabalin, ma è stato tutto questo ed altro ancora. In quegli anni vi fu l’incontro con Leonid Talochkin, il più noto collezionista dell’arte non convenzionale, che contribuì alla promozione dell’arte contemporanea a Donetsk. Un bunker crocevia di creatività in cui si mescolavano reminiscenze artistiche di varie correnti, le avanguardie, il cubismo, il futurismo, che permangono come voci nelle opere esposte. Dopo gli anni di fermento della galleria sotterranea arrivarono altre difficoltà e Shabalin subì delle richieste estorsive da parte della malavita locale. Costretto ad abbandonare la sua terra, si trasferisce in Italia portando con sé esperienze e ricordi nonché quell’amore per l’arte che in fondo è anche Vita, sentimento indissolubile che permane come trait d’union in ogni sua sentita esposizione. Nel 2002, quando ormai si era allontanato dalla sua terra natale, morì Leonid Talochkin che prima della scomparsa era tuttavia riuscito ad inaugurare nella città di Mosca, presso l’università Statale degli Studi Umanistici, il sogno del museo “Other Art”, “Arte altra”, non convenzionale, che racchiude la vasta ed intensa collezione di Talochkin abbracciante il periodo storico dal 1950 al 1980.
“Dream of a Red Army Soldier” (“Sogno di un soldato dell’armata rossa”), di Malkhaz Datukishvili, ritrae un soldato in primo piano con il volto bendato per le ferite e la bocca che appare saturata, serrata. Volti e opere di Alexander Bondarenko rievocano le forme del cubismo e si svelano nella potenza espressiva della decostruzione; in “Garbage”, (“Ciarpame”) la duplicità dei volti, drammaticamente significativi, rammentano, nella postura, la divinità del Giano Bifronte e paiono volgersi al passato e al futuro in una corporeità infissa nel presente. Lo sguardo dei soggetti è tuttavia proteso verso il basso anziché all’altrove, quasi ad identificarsi in una sommessa sofferenza gravida di pathos. Altrettanto drammatiche sono le posture umane di Vitalij Manuilov, una pittura di carattere esistenziale; in “A Life”, (“Una Vita”) ritrae un uomo ignudo curvo su sé stesso che si copre le orecchie nell’atto angoscioso di proteggersi da minacce fisiche e morali. Vladimir Kharakoz sorprende per la “dinamicità sovrappositiva” simile, per potenza espressiva, a quella di Francis Bacon. Dinamismo che si evince altresì nelle opere Ludmila Etenko, in cui permangono aneliti del futurismo. L’ermetica pittura di Genadij Olimpiuk si lascia interpretare tramite l’empatia, permea l’inconscio e rimane velata, straordinariamente misteriosa: occorre cercare le figure celate nella potenza espressiva inglobante dei colori. “Apparition” (“Apparizione”), di Vladimir Veltman, rievoca, nella poetica del volto, l’enigmaticità della Gioconda, che si staglia oltre la fissità della cornice in una contemporaneità frammentata e acquisisce tridimensionalità e attualità grazie alle incursioni materiche. La “metamorfosi ancestrale” dei corpi in Oleg Chernykh trasmette una narrazione emozionale istintiva che si dipana nel vissuto umano in cui albergano inquietudini ed emozioni. La “pitto-scrittura” di Sergej Barannik è data da un incatenarsi di segni a grafite che rimandano ad infinite significazioni, in cui ogni singolo tratto, quasi fosse un pittogramma, veicola una realtà espressiva che da singola diviene molteplice nella preziosa totalità compositiva. Il suggestivo “sur- realismo simbolico” di Vladislav Shabalin si configura come una metafora esistenziale che, tra contrasti e visioni, si fa leggere nel silenzio interiore dell’anima. È in questa sospensione, scevra da assordanti rumori, che occorre soffermarsi per riguardare ogni infinitesimale rimando a qualcosa di altro in un continuum di linee tracciate con elaborazione e perizia che si susseguono senza quasi mai separarsi, stagliandosi su campiture monocrome, spesso dominate dal rosso o dal nero, e narrano un universo reale ed al contempo immaginifico che nonostante tutto è ancora proteso ad un sentimento di speranza, di attesa. Vladislav Shabalin racchiude in sé “l’essenza della vita di artista”, esteta, curatore ed intellettuale, sempre in viaggio, non solo tra i luoghi che ha fisicamente attraversato, ma anche per quella sua straordinaria capacità di proiettarsi verso l’altrove, mantenendo, come frame di ricordi vissuti che scorrono tra le pieghe del pensiero, il legame indissolubile con l’esperienza del trascorso, portando con sè i volti e le persone che hanno fatto parte di quel profondo cammino umano ed esistenziale.
Il filosofo Martin Heidegger nel saggio “L’origine dell’opera d’arte”, nella sua personale e non sempre condivisa interpretazione del quadro di van Gogh raffigurante delle scarpe che egli attribuisce ad una contadina, si sofferma sulla verità dell’arte e sulla capacità di trasportare un mondo: «Dallo scuro dell’involto consumato delle scarpe, si protende la fatica dei ritmi del lavoro. Nella corposa ruvidità della calzatura si rafferma la durezza dei passi tra i solchi, tesi e sempre uguali, del campo battuto da un vento tagliente. Sul cuoio restano la freschezza e l’umidità del terreno. Sotto le suole si fa incontro la singolarità del sentiero campestre all’imbrunire. Nelle scarpe vibra il richiamo scabro della terra, il maturare silenzioso delle sue messi e il suo impenetrabile negarsi quando essa si mostra nell’incoltezza del campo invernale. In questo attrezzo, respirano l’apprensione, senza lamenti, per la sicurezza del pane, la gioia, senza parole, per lo stato di bisogno nuovamente superato, il trepidare nell’imminenza della nascita e il tremare nell’avvolgente minaccia della morte».
L’arte di questi artisti non lascia indenni da emozioni, passa dalle corde del cuore, le fa vibrare e richiama ad osservare quel “mondo perduto” che trattiene e trasporta con sé, in cui occorre immergersi ed ascoltare.