HOMO SUM - La fedeltà alla figurazione di Mario Benedetto
In occasione della mostra di Mario Benedetto “Homo sum”, a cura di Vera Agosti e in programma alla Bipielle Arte di Lodi dal 10 giugno al 3 luglio 2022, pubblichiamo in anteprima e in esclusiva il testo critico di Carlo Adelio Galimberti.
A cura di Fabrizio Sparaci.
Mario Benedetto ha quel dono celeste che si chiama talento: è una peculiarità che donano gli dei, e, come dice Leonardo, non s’impara, non è una competenza di mestiere: è quella maniera del vivere che si condivide coi poeti. Si tratta della capacità di osservare l’esistente penetrandone la superficie apparente per cavarne d’ogni cosa il senso nascosto.
Quella di Mario Benedetto è una maestria che non si nasconde dietro il filtro di teorie estetiche, ma rivela d’impeto la scioltezza di una manualità felice, intuitiva, vitalissima. Una manualità che ha confidenza con una sensibilità cromatica e formale che lo porta con serena freschezza e intensa poesia a ri- velarci le brume malinconiche dei paesaggi calabresi o l’intrigo dell’esuberante cromia di corpi avvinghiati nella lotta (Caino e Abele), od anche tenerissime sembianze di fanciulli (Exit, 2010), per liberarsi al fine nel gesto solido e sicuro delle sagome di avvincenti figure femminili (Ragazze col cellulare, 2017).
Mario Benedetto è un artista fedele alla pittura figurativa, mostrando così il coraggio di restare seguace della migliore tradizione pittorica mediterranea, resistendo alle sirene delle mode artistiche contemporanee. Certo oggi è problematico ascoltare quest’imperativo ed è per questo che parliamo di coraggio. Infatti, ad un secolo di distanza dall’esordio delle avanguardie storiche, la forma delle opere ha spesso dismesso il riscontro naturale, la riconoscibilità dei soggetti delle opere d’arte, abbandonando i sapienti sentieri della mimesi sui quali s’era da millenni incamminata la storia dell’espressione artistica. Ecco perché ho parlato di coraggio nella poetica di Mario Benedetto, come quello di chi sfida le mode e le facili scorciatoie poetiche, rappresentate da coloro che si affidano a segni improvvisati magari per giustificare pretese concettose attorno a prodotti che il “sistema dell’arte” etichetta come artistici, ammantando di pretesi e ponderosi concetti filosofici la loro illustrazione, rivelando come si possa bistrattare la filosofia pasticciandola con l’arte, facendo quindi due danni in un colpo solo.
Ma non si tratta solo di coraggio: esiste nell’opera di Mario Benedetto anche una sorta di moralità delle immagini che sgorgano da una religiosa, lunga, lenta, preziosa conduzione del proprio lavoro. Che è quella di chi ha lo sguardo che appartiene agli artisti: uno sguardo che non soffoca l’esistente nella costrizione delle definizioni funzionali cui la nostra cultura l’ha ridotto, ma l’osserva e lo sollecita da innamorato per stimolarne la rivelazione dei sensi più nascosti.
È un tragitto che Benedetto percorre attento alle proprie memorie, come quelle delle storie che nella sua terra narravano gli anziani (Interno, 2017), dove il rilucente vestito pittorico si fa narrazione dei territori e dei personaggi della terra dove è nato l’artista. Benedetto ci invita all’ammirazione di quei segni di vita impressi nei volti dei personaggi o nello sguardo sorpreso d’un animale domestico. Sono dettagli che accarezzano l’ambiente e la vita che in esso si svolge, esercitando quell’attenzione quasi sacra con cui si accostano i poeti: è l’esistenza che si fa quotidiana, diviene consuetudine ordinaria, quasi che il mistero del senso del lavoro di donne e d’animali sia elemento costitutivo della naturalità della vita di tutti, a cui la pittura di Benedetto aggiunge quell’incanto tonale che trasforma le sue figure in plausibile e convincente spiegazione dell’esistenza, oltre che domestico conforto per le fatiche quotidiane.
Ecco allora il tenerissimo raccogliersi del viso d’una bimba (Proximus tuus, 2018) che non sa ancora decifrare le asprezze della vita, od anche il deambulare ignaro di figure in un ambiente senza orizzonte e senza meta, (Spaesati, 2018) con la sola pittura a far loro accoglienza. Una pittura che rivela il sapiente controllo del mestiere, come rivelano quegli accostamenti arditi dei complementari d’azzurro e d’arancio, che suggeriscono come Mario Benedetto conosca e governi la migliore tradizione pittorica dei maestri che ci hanno preceduto. Ed ancora le citazioni di opere classiche, riprodotte nell’ironico accostamento con il seducente corpo di una modella contemporanea (Il pittore, 2016), che pare assumere una sorta di fedeltà ad un’antica fonte di feconda bellezza, unita alla consapevolezza del tempo trascorso di cui però si conserva l’immutata seduzione.
Credo si possa infatti parlare di un lavoro pittorico di intenso valore, in un tempo che celebra stilemi e maniere dell’arte che sovente hanno il respiro poetico di una sola stagione e che sono costituite spesso da opere che impiegano talvolta pochi istanti per essere generate. Qui, invece, viene mostrata una serie d’opere d’arte che chiedono una lunghissima e paziente gestazione per il loro prodursi. Sono tutte opere che trattengono nella loro materia il tratto della mano e il gesto dell’artista. È quindi prassi lenta, paziente, ostinata e appassionata, che sembra contraddire i ritmi della contemporaneità, quando la precarietà dei materiali che spesso costituiscono le proposte della cosiddetta avanguardia, pare perfettamente rappresentare.
Prassi lenta, dunque, governata dalla penetrazione dello sguardo e dalla cura dei gesti delle mani che conducono gli strumenti della pittura guidati dalla sensibilità dell’artista. La sensibilità, appunto. Quel territorio particolarissimo in cui trovano ospitalità i sentimenti e le passioni, per i quali non c’è ragione temporale che ne misuri l’efficacia e il risultato. Quando si ascolta l’artista mentre mostra le sue opere si avverte la sua vibrante partecipazione che rivela passione e sentimento. Ma allora è per passione e sentimento che ancora Mario Benedetto si attarda sulle evidenze d’una familiare bicicletta appoggiata ad una fanciulla orientale dal viso pensieroso (Attesa, 2017), quasi a meditare l’impegno necessario per colmare le distanze che le figure retrostanti qualificano in termini culturali e quindi non solo di spazio.
Ma passione e sentimento sono quindi i sigilli della sicura appartenenza al territorio dell’arte del lavoro di Mario Benedetto. L’arte che ha nel senso d’ogni cosa le proprie radici, per le quali fiorisce la sensibilità dell’artista che ne indaga ogni possibile espressività per mostrarcene l’inesauribile tragitto. Ecco allora che il talento di Benedetto si estende anche alla pratica della scultura così come dell’acquaforte. Un’indagine poetica che non si è limitata a queste tecniche tradizionali, ma si è spinta fino alla sperimentazione espressiva attraverso l’Accept-painting, dove convivono grafica, disegno, pittura e fotografia. La lacerazione dei supporti giustapposti a scritte stampate non è mai banale e cerca sempre un significato tra parole ed immagini, riuscendo a far emergere ironia, critica e giudizio sull’apparenza frammentaria (Il primo Cavaliere, 2007). Un lavoro di manualità diligente che sgorga dalla stessa fonte felice delle mani dell’artista come quando si cimenta nella scultura monumentale (Timpano di san Rocco, Scilla, 2003): ho “ascoltato” la sua stretta di mano. Una mano sicura, forte e gentile come quella di chi è abituato a corteggiare la materia, vincerne la resistenza affinché mostri e renda la poesia che custodisce. E d’altronde è la medesima mano che scalfisce il rame o lo zinco delle sue acqueforti. È questa un’arte di chi ha con la materia quel rapporto d’amore come quello di chi, ostinato e cocciuto, lo considera fatto ancora di gesti e di tatto.
Di chi si rivolge ai corpi non chiedendo loro cosa servano, ma chiedendo loro cosa siano. E di tutto questo fa la ragione e il sentimento del proprio segno e ci restituisce quello splendido spettacolo dell’acquaforte, frutto di quello straordinario dialogo che ha nel Nero e nel Bianco i due interlocutori dalla inesauribile facondia. Un percorso condotto nel mistero dell’esistente, che la opera d’arte non svela perché non è suo compito fornire spiegazioni, bensì restituircene solamente il seducente spettacolo.
È tutto quanto si riscontra nelle opere di Benedetto, nelle quali l’artista chiede alla materia ed ai colori di oltrepassare quella soglia di plausibilità formale che permetta la semplice riconoscibilità dei soggetti rappresentati, per pervenire a quella maggiore rivelazione di senso che le libertà compositive e di rap- presentazione consentono. È quanto è rivelato dal guizzare del suo gesto pittorico, che nell’irrequietezza delle pennellate rivela la felice sorgente naturale del talento dell’artista. Mario Benedetto si rivolge all’esistente considerandolo non più come un oggetto inerte offerto alla propria osservazione ma come un soggetto con cui entrare in rispettosa relazione affinché la seduzione dello spettacolo naturale si esalti nel fascino della pittura.
Il tutto per inseguire quel traguardo che da sempre governa l’opera del dipingere: si tratta della bellezza che, in fondo, rappresenta la legge segreta della vita.
MARIO BENEDETTO
“HOMO SUM”
Mostra a cura di Vera Agosti
Bipielle Arte
Via Polenghi Lombardo
Spazio Tiziano Zalli, Lodi
10 giugno – 3 luglio 2022
Ingresso libero
Inaugurazione
Venerdì 10 giugno dalle 16 alle 20
Informazioni al pubblico
0371.580351 Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
A cura di Fabrizio Sparaci.
Mario Benedetto ha quel dono celeste che si chiama talento: è una peculiarità che donano gli dei, e, come dice Leonardo, non s’impara, non è una competenza di mestiere: è quella maniera del vivere che si condivide coi poeti. Si tratta della capacità di osservare l’esistente penetrandone la superficie apparente per cavarne d’ogni cosa il senso nascosto.
Quella di Mario Benedetto è una maestria che non si nasconde dietro il filtro di teorie estetiche, ma rivela d’impeto la scioltezza di una manualità felice, intuitiva, vitalissima. Una manualità che ha confidenza con una sensibilità cromatica e formale che lo porta con serena freschezza e intensa poesia a ri- velarci le brume malinconiche dei paesaggi calabresi o l’intrigo dell’esuberante cromia di corpi avvinghiati nella lotta (Caino e Abele), od anche tenerissime sembianze di fanciulli (Exit, 2010), per liberarsi al fine nel gesto solido e sicuro delle sagome di avvincenti figure femminili (Ragazze col cellulare, 2017).
Mario Benedetto è un artista fedele alla pittura figurativa, mostrando così il coraggio di restare seguace della migliore tradizione pittorica mediterranea, resistendo alle sirene delle mode artistiche contemporanee. Certo oggi è problematico ascoltare quest’imperativo ed è per questo che parliamo di coraggio. Infatti, ad un secolo di distanza dall’esordio delle avanguardie storiche, la forma delle opere ha spesso dismesso il riscontro naturale, la riconoscibilità dei soggetti delle opere d’arte, abbandonando i sapienti sentieri della mimesi sui quali s’era da millenni incamminata la storia dell’espressione artistica. Ecco perché ho parlato di coraggio nella poetica di Mario Benedetto, come quello di chi sfida le mode e le facili scorciatoie poetiche, rappresentate da coloro che si affidano a segni improvvisati magari per giustificare pretese concettose attorno a prodotti che il “sistema dell’arte” etichetta come artistici, ammantando di pretesi e ponderosi concetti filosofici la loro illustrazione, rivelando come si possa bistrattare la filosofia pasticciandola con l’arte, facendo quindi due danni in un colpo solo.
Ma non si tratta solo di coraggio: esiste nell’opera di Mario Benedetto anche una sorta di moralità delle immagini che sgorgano da una religiosa, lunga, lenta, preziosa conduzione del proprio lavoro. Che è quella di chi ha lo sguardo che appartiene agli artisti: uno sguardo che non soffoca l’esistente nella costrizione delle definizioni funzionali cui la nostra cultura l’ha ridotto, ma l’osserva e lo sollecita da innamorato per stimolarne la rivelazione dei sensi più nascosti.
È un tragitto che Benedetto percorre attento alle proprie memorie, come quelle delle storie che nella sua terra narravano gli anziani (Interno, 2017), dove il rilucente vestito pittorico si fa narrazione dei territori e dei personaggi della terra dove è nato l’artista. Benedetto ci invita all’ammirazione di quei segni di vita impressi nei volti dei personaggi o nello sguardo sorpreso d’un animale domestico. Sono dettagli che accarezzano l’ambiente e la vita che in esso si svolge, esercitando quell’attenzione quasi sacra con cui si accostano i poeti: è l’esistenza che si fa quotidiana, diviene consuetudine ordinaria, quasi che il mistero del senso del lavoro di donne e d’animali sia elemento costitutivo della naturalità della vita di tutti, a cui la pittura di Benedetto aggiunge quell’incanto tonale che trasforma le sue figure in plausibile e convincente spiegazione dell’esistenza, oltre che domestico conforto per le fatiche quotidiane.
Ecco allora il tenerissimo raccogliersi del viso d’una bimba (Proximus tuus, 2018) che non sa ancora decifrare le asprezze della vita, od anche il deambulare ignaro di figure in un ambiente senza orizzonte e senza meta, (Spaesati, 2018) con la sola pittura a far loro accoglienza. Una pittura che rivela il sapiente controllo del mestiere, come rivelano quegli accostamenti arditi dei complementari d’azzurro e d’arancio, che suggeriscono come Mario Benedetto conosca e governi la migliore tradizione pittorica dei maestri che ci hanno preceduto. Ed ancora le citazioni di opere classiche, riprodotte nell’ironico accostamento con il seducente corpo di una modella contemporanea (Il pittore, 2016), che pare assumere una sorta di fedeltà ad un’antica fonte di feconda bellezza, unita alla consapevolezza del tempo trascorso di cui però si conserva l’immutata seduzione.
Credo si possa infatti parlare di un lavoro pittorico di intenso valore, in un tempo che celebra stilemi e maniere dell’arte che sovente hanno il respiro poetico di una sola stagione e che sono costituite spesso da opere che impiegano talvolta pochi istanti per essere generate. Qui, invece, viene mostrata una serie d’opere d’arte che chiedono una lunghissima e paziente gestazione per il loro prodursi. Sono tutte opere che trattengono nella loro materia il tratto della mano e il gesto dell’artista. È quindi prassi lenta, paziente, ostinata e appassionata, che sembra contraddire i ritmi della contemporaneità, quando la precarietà dei materiali che spesso costituiscono le proposte della cosiddetta avanguardia, pare perfettamente rappresentare.
Prassi lenta, dunque, governata dalla penetrazione dello sguardo e dalla cura dei gesti delle mani che conducono gli strumenti della pittura guidati dalla sensibilità dell’artista. La sensibilità, appunto. Quel territorio particolarissimo in cui trovano ospitalità i sentimenti e le passioni, per i quali non c’è ragione temporale che ne misuri l’efficacia e il risultato. Quando si ascolta l’artista mentre mostra le sue opere si avverte la sua vibrante partecipazione che rivela passione e sentimento. Ma allora è per passione e sentimento che ancora Mario Benedetto si attarda sulle evidenze d’una familiare bicicletta appoggiata ad una fanciulla orientale dal viso pensieroso (Attesa, 2017), quasi a meditare l’impegno necessario per colmare le distanze che le figure retrostanti qualificano in termini culturali e quindi non solo di spazio.
Ma passione e sentimento sono quindi i sigilli della sicura appartenenza al territorio dell’arte del lavoro di Mario Benedetto. L’arte che ha nel senso d’ogni cosa le proprie radici, per le quali fiorisce la sensibilità dell’artista che ne indaga ogni possibile espressività per mostrarcene l’inesauribile tragitto. Ecco allora che il talento di Benedetto si estende anche alla pratica della scultura così come dell’acquaforte. Un’indagine poetica che non si è limitata a queste tecniche tradizionali, ma si è spinta fino alla sperimentazione espressiva attraverso l’Accept-painting, dove convivono grafica, disegno, pittura e fotografia. La lacerazione dei supporti giustapposti a scritte stampate non è mai banale e cerca sempre un significato tra parole ed immagini, riuscendo a far emergere ironia, critica e giudizio sull’apparenza frammentaria (Il primo Cavaliere, 2007). Un lavoro di manualità diligente che sgorga dalla stessa fonte felice delle mani dell’artista come quando si cimenta nella scultura monumentale (Timpano di san Rocco, Scilla, 2003): ho “ascoltato” la sua stretta di mano. Una mano sicura, forte e gentile come quella di chi è abituato a corteggiare la materia, vincerne la resistenza affinché mostri e renda la poesia che custodisce. E d’altronde è la medesima mano che scalfisce il rame o lo zinco delle sue acqueforti. È questa un’arte di chi ha con la materia quel rapporto d’amore come quello di chi, ostinato e cocciuto, lo considera fatto ancora di gesti e di tatto.
Di chi si rivolge ai corpi non chiedendo loro cosa servano, ma chiedendo loro cosa siano. E di tutto questo fa la ragione e il sentimento del proprio segno e ci restituisce quello splendido spettacolo dell’acquaforte, frutto di quello straordinario dialogo che ha nel Nero e nel Bianco i due interlocutori dalla inesauribile facondia. Un percorso condotto nel mistero dell’esistente, che la opera d’arte non svela perché non è suo compito fornire spiegazioni, bensì restituircene solamente il seducente spettacolo.
È tutto quanto si riscontra nelle opere di Benedetto, nelle quali l’artista chiede alla materia ed ai colori di oltrepassare quella soglia di plausibilità formale che permetta la semplice riconoscibilità dei soggetti rappresentati, per pervenire a quella maggiore rivelazione di senso che le libertà compositive e di rap- presentazione consentono. È quanto è rivelato dal guizzare del suo gesto pittorico, che nell’irrequietezza delle pennellate rivela la felice sorgente naturale del talento dell’artista. Mario Benedetto si rivolge all’esistente considerandolo non più come un oggetto inerte offerto alla propria osservazione ma come un soggetto con cui entrare in rispettosa relazione affinché la seduzione dello spettacolo naturale si esalti nel fascino della pittura.
Il tutto per inseguire quel traguardo che da sempre governa l’opera del dipingere: si tratta della bellezza che, in fondo, rappresenta la legge segreta della vita.
MARIO BENEDETTO
“HOMO SUM”
Mostra a cura di Vera Agosti
Bipielle Arte
Via Polenghi Lombardo
Spazio Tiziano Zalli, Lodi
10 giugno – 3 luglio 2022
Ingresso libero
Inaugurazione
Venerdì 10 giugno dalle 16 alle 20
Informazioni al pubblico
0371.580351 Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.