LA COLLEZIONE CAVALLINI SGARBI - DA NICCOLÒ DELL'ARCA A GAETANO PREVIATI TESORI D'ARTE PER FERRARA
di Silvana Gatti
È stata inaugurata sabato 3 febbraio, nel Castello Estense di Ferrara, la mostra “La collezione Cavallini Sgarbi. Da Niccolò dell’Arca a Gaetano Previati. Tesori d’arte per Ferrara.”
L’esposizione è dedicata alla Collezione Cavallini Sgarbi, 130 opere tra dipinti e sculture raccolte in circa quarant’anni di collezionismo appassionato da Vittorio Sgarbi con la madre Caterina “Rina” Cavallini e con la presenza silenziosa di Giuseppe Sgarbi. Elisabetta Sgarbi, per il tra- mite della propria Fondazione, ha voluto che questa mostra raccontasse, nel luogo più rappresentativo della città di Ferrara, non solo la storia di una straordinaria impresa culturale, ma anche quella della sua famiglia che ha dedicato all’arte tutte le energie.
La mostra è ideata e promossa dalla Fondazione Elisabetta Sgarbi in collaborazione con la Fondazione Cavallini Sgarbi, con il Comune di Ferrara e sotto il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e della Regione Emilia-Romagna. Le ricche sale dell’appartamento di rappresentanza al piano nobile del Castello Estense ed i “Camerini del principe” ospitano opere che vanno dalla fine del Quattrocento a metà Novecento, da Niccolò dell’Arca a Niccolò Pisano, dal Garofalo a Gaetano Previati, da Giovanni Boldini a Giuseppe Mentessi.
L’amore di Vittorio Sgarbi per il collezionismo è partito inizialmente dai libri. Dopo aver acquisito, a partire dal 1976, 2800 titoli delle 3500 fonti, trattati, guide e storie locali, databili dal 1503 al 1898, elencati da Julius von Schlosser nella sua “Letteratura artistica”, cuore di una biblioteca con oltre 200.000 volumi, Vittorio Sgarbi ha cambiato registro scoprendo il piacere di collezionare quadri e sculture. Inizia così una lunga avventura, a partire dal 1984, anno in cui il noto critico si trova dinanzi al San Domenico di Niccolò dell’Arca. Sgarbi, per la sua collezione, non acquista le opere inflazionate del mercato dell’arte, ma le opere “introvabili e incercabili”, dando o- rigine ad una collezione che rappresenta una vera e propria panoramica dell’arte italiana, tra pittura e scultura, dal XV secolo ai giorni nostri.
La collezione comprende preziosi manufatti creati in antiche botteghe delle quali si hanno ancora poche notizie, basti citare la fucina degli Embriachi, organizzata da un certo Baldassarre fiorentino, al quale è sta-to riconosciuto un ruolo di gestione imprenditoriale, acquisito grazie a frequenti viaggi in Inghilterra, Francia e Catalogna. Il compito di dirigere la bottega degli Embriachi fu sicuramente affidato da Baldassarre allo scultore concittadino Giovanni di Jacopo, entrambi scomparsi nell’anno 1406. La cifra stilistica dei lavori di questa bottega ricorda lo stile di un altro laboratorio impegnato nella realizzazione di cofanetti in osso e corno, la cosiddetta “Bottega a figure inchiodate”, che prende il nome dalla tecnica che permetteva di fissare le lamelle con i rilievi figurativi al supporto ligneo mediante l’uso di piccoli chiodi. Gli Embriachi, inizialmente attivi a Firenze fra il 1370 e il 1380, operarono dal 1395 a Venezia. La loro attività tramontò verso il 1430, ma alcuni imitatori continuarono per decenni la produzione di questi oggetti. Di questa produzione sono importante testimonianza le quattro opere presentate in mostra. La prima di queste è una Cornice di specchio da parete di forma ottagonale e dal coronamento cuspidato, nel quale campeggia una figura alata che posa la mano destra su una colonna e stringe nella sinistra uno scudo, al cospetto di due angeli, La parte centrale con lo specchio circolare è racchiusa entro la cornice composita, dove due minute fasce intarsiate – realizzate con pezzetti di legno e osso – inquadrano le lamelle con le raffigurazioni di creature angeliche su di uno sfondo a foglie di rosa stilizzate. In questo tipo di oggetti e nei Cofanetti, elaborati per celebrare le nozze di due coniugi, sono spesso raffigurati una coppia di scudi, ad indicare le casate dei committenti. Gli altri tre testimoni della produzione embriacesca in mostra sono dei Cofanetti intarsiati con coppie di figure, concepiti come portagioielli e nel contempo per celebrare i matrimoni. Due dei cofanetti esposti sono riferibili a una bottega dell’Italia settentrionale attiva nel primo trentennio del Quattrocento, prossima a quella degli Embriachi. Il terzo manufatto svela la matrice fiorentina, in quanto nelle lamelle si può notare la tipica raffigurazione dei pini a ombrello (su fondo nero), mentre agli angoli sono raffigurate delle figure maschili con la clava e scudo, e lo sfondo naturalistico è caratterizzato da ciuffi d’erba pitturati a tempera, elementi presenti anche nel Cofanetto con la Storia di Giasone attribuito alla Bottega di Baldassarre degli Embriachi, datato alla fine del XIV secolo e custodito al Louvre.
Importante elemento della mostra è un capolavoro del Rinascimento italiano, il San Domenico in terracotta modellato nel 1474 da Niccolò dell’Arca e posto inizialmente sopra la porta “della vestiaria” nel convento della chiesa di San Domenico a Bologna, dove tra il 1469 e il 1473 l’artista attese all’Arca del santo da cui deriva il suo pseudonimo. Immagine forte e vigorosa, documenta la capacità del maestro pugliese di rendere vitali le sue figure. Si può ben dire che Niccolò dell’Arca fu un grande scultore del Quattrocento italiano, nonostante non sia famoso come Donatello o Michelangelo. Le fonti storiche sottolineano le sue capacità nella riproduzione degli animali: “Fe’ mosche che pareano vive, e altri animaliti tute chose mirabele” (dalla Tuata 1494, ed. 2005, p. 368), “fece anco una gabbia con un augelletto dentro di grandezza quanto e una oncia di piede, et molti altri simili capricci”(in Ghirardacci ante 1598, ed. 1933, p. 285). Vittorio Sgarbi ha incluso nella sua collezione anche un’altra opera di Niccolò dell’Arca, un’Aquila in terracotta che appare un primo studio per quella posta sul portale d’ingresso della facciata della chiesa di San Giovanni in Monte a Bologna. Le due sculture di Niccolò furono trovate da Sgarbi in coincidenza con la scomparsa delle persone a lui più care: lo zio Bruno, nel 1984, e la madre Rina, nel 2015.
Seguono i notevoli capitelli con sibille eseguiti nel 1484 dal celebre scultore ticinese Domenico Gagini per la confraternita di Santa Maria dell’Annunziata di Palermo, le terrecotte di Matteo Civitali e Agostino de Fundulis, e una straordinaria raccolta di preziosi dipinti, prevalentemente su tavola, eseguiti tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento. Ai pittori nati o attivi a Ferrara – Antonio Cicognara, Giovanni Battista Benvenuti detto l’Ortolano, Nicolò Pisano, Benvenuto Tisi detto il Garofalo – si affiancano autori rari come Liberale da Verona, Jacopo da Valenza, Antonio da Crevalcore, Giovanni Agostino da Lodi, Nicola Filotesio detto Cola dell’Amatrice, Johannes Hispanus, Bernardino da Tossignano, Francesco Zaganelli, Bartolomeo di David, Lambert Sustris.
Tra i numerosi quadri a soggetto religioso, colpisce lo sguardo il grande trono marmoreo con semicupola decorata a conchiglia della “Madonna del latte tra sant’Agnese e santa Caterina d’Alessandria”, con ai lati dell’opera le imponenti figure delle due sante, contraddistinte dalla palma del martirio e dai rispettivi attributi, l’agnello e la ruota, quasi occultati: l’uno ai piedi della santa e di proporzioni ridotte, l’altro si nota solo se si osserva il lembo della veste sorretto dalla santa. Questa pala ripropone l’iconografia antica della Vergine allattante, dove l’erculeo Bambino Gesù, nudo e con girocollo di corallo, volge la testa verso lo spettatore, distraendosi dalle attenzioni materne. Il punto focale della composizione è il trono tridimensionale, a nicchia con calotta a valva di conchiglia, che rimanda chiaramente alla Pala di Brera di Piero della Francesca ed all’altare Roverella di Cosmé Tura, fino all’Incisione Previdari del 1481 per l’architettura. La pala, datata e firmata, è da attribuire ad Antonio Cicognara – pittore e miniatore di origini forse cremonesi.
Il focus sulla “scuola ferrarese” prosegue agli inizi del XVII secolo con i dipinti di Sebastiano Filippi detto il Bastianino, Gaspare Venturini, Ippolito Scarsella detto lo Scarsellino, Camillo Ricci, Giuseppe Caletti e Carlo Bononi. Contestualmente si possono ammirare diversi capolavori della pittura italiana del Seicento, tra i quali la Cleopatra di Artemisia Gentileschi, insieme ai soggetti femminili che spiccano vistosamente fra i dipinti della raccolta. La prima notizia sulla Cleopatra di Artemisia risale al 1945, quando Antonio Baldini (Roma, 1889-1962) la pubblicò sul settimanale “L’Europeo” registrandone l’intervento di restauro con il quale fu rimosso dalla tela il velo che copriva la figura. Sgarbi individuò l’opera in una casa romana nei primi anni novanta. Offuscata da vernici ingiallite, sembrò attribuibile a Cagnacci, finché la pulitura non la riportò ai caratteri originari di energia e di realismo tipici di Artemisia. La donna, dalle forme abbondanti, è elegantemente avvolta da un drappeggio rosso contrastante con la figura, che risulta appesantita ed abbandonata, anche nel volto languido e lascivo. Solitamente il corpo nudo e lascivo è, in Caravaggio, maschile, come nell’Amore vincitore e nel San Giovanni Battista. Artemisia traspone quell’ispirazione al femminile, ribaltando i canoni tradizionali con un realismo assoluto che non ha alcuna concessione lirica o intimistica. Le forme eccedenti del braccio e della pancia sottolineano come Cleopatra sia in quest’opera semplicemente una don-na, corpo prima che anima, esistenza prima che essenza. Artemisia dipinge il suo manifesto di libertà del corpo, libertà anche di perdere l’armonia quando il pensiero è pesante, in quanto la morte è prossima, i sensi si abbandonano, la coscienza si attenua e la donna non ha tempo di pensare all’eleganza del suo corpo, a mostrarsi in ordine. Il dolore è fisico, c’è forse una trasposizione autobiografica in questo volto che ne richiama altri nella pittura di Artemisia. La bellezza di quel volto cede alla smorfia, la lussuria del corpo all’abbandono della carne. Non c’è incertezza, non c’è esitazione nel gesto di questa Cleopatra determinata, senza languori e coraggiosa. Proprio in questa attribuzione a una donna di nobili attitudini, solitamente riferite al mondo maschile, consiste l’elemento più nuovo del dipinto, un quadro particolarmente libero di Artemisia Gentileschi, una Cleopatra non priva di quella forza fisica a cui Artemisia sembra abituata essendo quasi sempre aggressiva. La sua protagonista è qui ridotta all’essenziale, remissiva, e senza l’aiuto retorico di vesti roboanti. Anche Giusto Fiammingo si muove sui personaggi interpretati da Arthemisia, ed è notevole la sua Cleopatra, comparsa nel 1994 in asta (Pandolfini, Firenze, 19 ottobre 1994, n. 624) e attribuita inizialmente alla scuola di Guido Reni, ricondotta da Gianni Papi a Giusto Fiammingo sulla base della fotografia pubblicata nel catalogo di tale vendita (Papi 2014a, pp. 60-67).
La mostra prosegue con la Maddalena assistita dagli angeli di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, il San Girolamo di Jusepe Ribera, la Vita umana di Guido Cagnacci e il Ritratto di Francesco Righetti di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino. Quest’ultimo dipinto – “rientrato a casa” nel 2004 dopo essere stato esposto per anni al Kimbell Art Museum di Fort Worth, in Texas – è il primo di una eccezionale galleria di ritratti che compendia lo sviluppo del genere dall’inizio del Cinquecento alla fine dell’Ottocento, tra pittura e scultura, da Lorenzo Lotto a Francesco Hayez, con specialisti quali Bartolomeo Passerotti, Nicolas Régnier, Philippe de Champaigne, Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio, Enrico Merengo, Ferdinand Voet, Giovanni Antonio Cybei, Pietro Labruzzi, Lorenzo Bartolini, Raimondo Trentanove e Vincenzo Vela. Altrettanto avvincente è il percorso tra dipinti di tema sacro, allegorico e mitologico del Sei e del Settecento: una selezione di sorprendente varietà, e di alta qualità, che riflette gli interessi sconfinati e la frenesia di ricerca del collezionista, con maestri della scuola veneta (Marcantonio Bassetti, Pietro Damini, Pietro Vecchia, Johann Carl Loth, Giovanni Antonio Fumiani), emiliana (Simone Cantarini, Matteo Loves, Marcantonio Franceschini, Ignaz Stern detto Ignazio Stella), lombarda (Paolo Pagani, Agostino Santagostino), romana (Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino, Angelo Caroselli, Pseudo Caroselli, Giusto Fiammingo, Antonio Cavallucci), toscana (Giacinto Gimignani, Livio Mehus, Alessandro Rosi, Pietro Paolini, Giovanni Domenico Lombardi).
Colpisce, di Pseudo Caroselli, Giuditta con la testa di Oloferne qui esposta, per la sua espressività che rimanda all’ambiente del teatro con trucchi e costumi, inscenando episodi storici, biblici o mitologici. Tra le opere a tema mitologico, è catartico il dipinto di Agostino Santagostino (Milano, 1633 – 1699) ”Polifemo scaglia un macigno contro Aci”, un Olio su tela del 1669. L’episodio si riferisce alla tradizione ovidiana (Metamorfosi, XIII, 750-897) dell’amore del ciclope Polifemo per la nereide Galatea, promessa sposa del pastore Aci, figlio di Pan. Il dipinto raffigura la tragica fine del mito, quando Polifemo, sorpresi gli amanti abbracciati in riva al mare, si vendica uccidendo il giovane rivale con un masso, mentre la ninfa fugge. Firmato e datato 1669, il dipinto rappresenta una delle prove più antiche del pittore milanese Agostino Santagostino, conosciuto per dipinti di tema sacro distribuiti nelle chiese della sua città.
Non mancano le sculture, tra cui le delicate creazioni di Giuseppe Mazza, Cesare Tiazzi, Petronio Tadolini e Giovanni Putti che documentano la fortuna della plastica in terracotta a Bologna e in Emilia. Il periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento è documentato dagli artisti ferraresi: Gaetano Previati, con un bellissimo Cristo crocefisso del 1881, Giovanni Boldini, con alcuni disegni che rivelano una quotidianità distante dallo sfarzo della Belle Epoque, Filippo de Pisis, Giuseppe Mentessi, Adolfo Magrini, Giovanni Battista Crema, Ugo Martelli, Augusto Tagliaferri, Carlo Parmeggiani, Arrigo Minerbi, Ulderico Fabbri, tutti presenti con testimonianze fondamentali. Molto bella la scultura in maiolica di Andrea Parini(Caltagirone, 1906 – Gorizia, 1975), Ritratto della figlia del 1941, che riporta in basso la scritta “Figlia, ti vorrei casalinga e scrittrice. Un omaggio all’arte italiana, alla città di Ferrara e alla sua storia attraverso i tesori d’arte custoditi nell’importante collezione ferrarese. Il catalogo della mostra, a cura di Pietro Di Natale, è pubblicato da La nave di Teseo editore. Vittorio Sgarbi e Elisabetta Sgarbi, fondatori della Fondazione Cavallini Sgarbi e, rispettivamente, Presidente della Fondazione Cavallini Sgarbi e della Fondazione Elisabetta Sgarbi dedicano la mostra a Giuseppe Sgarbi e Caterina Cavallini.
È stata inaugurata sabato 3 febbraio, nel Castello Estense di Ferrara, la mostra “La collezione Cavallini Sgarbi. Da Niccolò dell’Arca a Gaetano Previati. Tesori d’arte per Ferrara.”
L’esposizione è dedicata alla Collezione Cavallini Sgarbi, 130 opere tra dipinti e sculture raccolte in circa quarant’anni di collezionismo appassionato da Vittorio Sgarbi con la madre Caterina “Rina” Cavallini e con la presenza silenziosa di Giuseppe Sgarbi. Elisabetta Sgarbi, per il tra- mite della propria Fondazione, ha voluto che questa mostra raccontasse, nel luogo più rappresentativo della città di Ferrara, non solo la storia di una straordinaria impresa culturale, ma anche quella della sua famiglia che ha dedicato all’arte tutte le energie.
La mostra è ideata e promossa dalla Fondazione Elisabetta Sgarbi in collaborazione con la Fondazione Cavallini Sgarbi, con il Comune di Ferrara e sotto il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e della Regione Emilia-Romagna. Le ricche sale dell’appartamento di rappresentanza al piano nobile del Castello Estense ed i “Camerini del principe” ospitano opere che vanno dalla fine del Quattrocento a metà Novecento, da Niccolò dell’Arca a Niccolò Pisano, dal Garofalo a Gaetano Previati, da Giovanni Boldini a Giuseppe Mentessi.
L’amore di Vittorio Sgarbi per il collezionismo è partito inizialmente dai libri. Dopo aver acquisito, a partire dal 1976, 2800 titoli delle 3500 fonti, trattati, guide e storie locali, databili dal 1503 al 1898, elencati da Julius von Schlosser nella sua “Letteratura artistica”, cuore di una biblioteca con oltre 200.000 volumi, Vittorio Sgarbi ha cambiato registro scoprendo il piacere di collezionare quadri e sculture. Inizia così una lunga avventura, a partire dal 1984, anno in cui il noto critico si trova dinanzi al San Domenico di Niccolò dell’Arca. Sgarbi, per la sua collezione, non acquista le opere inflazionate del mercato dell’arte, ma le opere “introvabili e incercabili”, dando o- rigine ad una collezione che rappresenta una vera e propria panoramica dell’arte italiana, tra pittura e scultura, dal XV secolo ai giorni nostri.
La collezione comprende preziosi manufatti creati in antiche botteghe delle quali si hanno ancora poche notizie, basti citare la fucina degli Embriachi, organizzata da un certo Baldassarre fiorentino, al quale è sta-to riconosciuto un ruolo di gestione imprenditoriale, acquisito grazie a frequenti viaggi in Inghilterra, Francia e Catalogna. Il compito di dirigere la bottega degli Embriachi fu sicuramente affidato da Baldassarre allo scultore concittadino Giovanni di Jacopo, entrambi scomparsi nell’anno 1406. La cifra stilistica dei lavori di questa bottega ricorda lo stile di un altro laboratorio impegnato nella realizzazione di cofanetti in osso e corno, la cosiddetta “Bottega a figure inchiodate”, che prende il nome dalla tecnica che permetteva di fissare le lamelle con i rilievi figurativi al supporto ligneo mediante l’uso di piccoli chiodi. Gli Embriachi, inizialmente attivi a Firenze fra il 1370 e il 1380, operarono dal 1395 a Venezia. La loro attività tramontò verso il 1430, ma alcuni imitatori continuarono per decenni la produzione di questi oggetti. Di questa produzione sono importante testimonianza le quattro opere presentate in mostra. La prima di queste è una Cornice di specchio da parete di forma ottagonale e dal coronamento cuspidato, nel quale campeggia una figura alata che posa la mano destra su una colonna e stringe nella sinistra uno scudo, al cospetto di due angeli, La parte centrale con lo specchio circolare è racchiusa entro la cornice composita, dove due minute fasce intarsiate – realizzate con pezzetti di legno e osso – inquadrano le lamelle con le raffigurazioni di creature angeliche su di uno sfondo a foglie di rosa stilizzate. In questo tipo di oggetti e nei Cofanetti, elaborati per celebrare le nozze di due coniugi, sono spesso raffigurati una coppia di scudi, ad indicare le casate dei committenti. Gli altri tre testimoni della produzione embriacesca in mostra sono dei Cofanetti intarsiati con coppie di figure, concepiti come portagioielli e nel contempo per celebrare i matrimoni. Due dei cofanetti esposti sono riferibili a una bottega dell’Italia settentrionale attiva nel primo trentennio del Quattrocento, prossima a quella degli Embriachi. Il terzo manufatto svela la matrice fiorentina, in quanto nelle lamelle si può notare la tipica raffigurazione dei pini a ombrello (su fondo nero), mentre agli angoli sono raffigurate delle figure maschili con la clava e scudo, e lo sfondo naturalistico è caratterizzato da ciuffi d’erba pitturati a tempera, elementi presenti anche nel Cofanetto con la Storia di Giasone attribuito alla Bottega di Baldassarre degli Embriachi, datato alla fine del XIV secolo e custodito al Louvre.
Importante elemento della mostra è un capolavoro del Rinascimento italiano, il San Domenico in terracotta modellato nel 1474 da Niccolò dell’Arca e posto inizialmente sopra la porta “della vestiaria” nel convento della chiesa di San Domenico a Bologna, dove tra il 1469 e il 1473 l’artista attese all’Arca del santo da cui deriva il suo pseudonimo. Immagine forte e vigorosa, documenta la capacità del maestro pugliese di rendere vitali le sue figure. Si può ben dire che Niccolò dell’Arca fu un grande scultore del Quattrocento italiano, nonostante non sia famoso come Donatello o Michelangelo. Le fonti storiche sottolineano le sue capacità nella riproduzione degli animali: “Fe’ mosche che pareano vive, e altri animaliti tute chose mirabele” (dalla Tuata 1494, ed. 2005, p. 368), “fece anco una gabbia con un augelletto dentro di grandezza quanto e una oncia di piede, et molti altri simili capricci”(in Ghirardacci ante 1598, ed. 1933, p. 285). Vittorio Sgarbi ha incluso nella sua collezione anche un’altra opera di Niccolò dell’Arca, un’Aquila in terracotta che appare un primo studio per quella posta sul portale d’ingresso della facciata della chiesa di San Giovanni in Monte a Bologna. Le due sculture di Niccolò furono trovate da Sgarbi in coincidenza con la scomparsa delle persone a lui più care: lo zio Bruno, nel 1984, e la madre Rina, nel 2015.
Seguono i notevoli capitelli con sibille eseguiti nel 1484 dal celebre scultore ticinese Domenico Gagini per la confraternita di Santa Maria dell’Annunziata di Palermo, le terrecotte di Matteo Civitali e Agostino de Fundulis, e una straordinaria raccolta di preziosi dipinti, prevalentemente su tavola, eseguiti tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento. Ai pittori nati o attivi a Ferrara – Antonio Cicognara, Giovanni Battista Benvenuti detto l’Ortolano, Nicolò Pisano, Benvenuto Tisi detto il Garofalo – si affiancano autori rari come Liberale da Verona, Jacopo da Valenza, Antonio da Crevalcore, Giovanni Agostino da Lodi, Nicola Filotesio detto Cola dell’Amatrice, Johannes Hispanus, Bernardino da Tossignano, Francesco Zaganelli, Bartolomeo di David, Lambert Sustris.
Tra i numerosi quadri a soggetto religioso, colpisce lo sguardo il grande trono marmoreo con semicupola decorata a conchiglia della “Madonna del latte tra sant’Agnese e santa Caterina d’Alessandria”, con ai lati dell’opera le imponenti figure delle due sante, contraddistinte dalla palma del martirio e dai rispettivi attributi, l’agnello e la ruota, quasi occultati: l’uno ai piedi della santa e di proporzioni ridotte, l’altro si nota solo se si osserva il lembo della veste sorretto dalla santa. Questa pala ripropone l’iconografia antica della Vergine allattante, dove l’erculeo Bambino Gesù, nudo e con girocollo di corallo, volge la testa verso lo spettatore, distraendosi dalle attenzioni materne. Il punto focale della composizione è il trono tridimensionale, a nicchia con calotta a valva di conchiglia, che rimanda chiaramente alla Pala di Brera di Piero della Francesca ed all’altare Roverella di Cosmé Tura, fino all’Incisione Previdari del 1481 per l’architettura. La pala, datata e firmata, è da attribuire ad Antonio Cicognara – pittore e miniatore di origini forse cremonesi.
Il focus sulla “scuola ferrarese” prosegue agli inizi del XVII secolo con i dipinti di Sebastiano Filippi detto il Bastianino, Gaspare Venturini, Ippolito Scarsella detto lo Scarsellino, Camillo Ricci, Giuseppe Caletti e Carlo Bononi. Contestualmente si possono ammirare diversi capolavori della pittura italiana del Seicento, tra i quali la Cleopatra di Artemisia Gentileschi, insieme ai soggetti femminili che spiccano vistosamente fra i dipinti della raccolta. La prima notizia sulla Cleopatra di Artemisia risale al 1945, quando Antonio Baldini (Roma, 1889-1962) la pubblicò sul settimanale “L’Europeo” registrandone l’intervento di restauro con il quale fu rimosso dalla tela il velo che copriva la figura. Sgarbi individuò l’opera in una casa romana nei primi anni novanta. Offuscata da vernici ingiallite, sembrò attribuibile a Cagnacci, finché la pulitura non la riportò ai caratteri originari di energia e di realismo tipici di Artemisia. La donna, dalle forme abbondanti, è elegantemente avvolta da un drappeggio rosso contrastante con la figura, che risulta appesantita ed abbandonata, anche nel volto languido e lascivo. Solitamente il corpo nudo e lascivo è, in Caravaggio, maschile, come nell’Amore vincitore e nel San Giovanni Battista. Artemisia traspone quell’ispirazione al femminile, ribaltando i canoni tradizionali con un realismo assoluto che non ha alcuna concessione lirica o intimistica. Le forme eccedenti del braccio e della pancia sottolineano come Cleopatra sia in quest’opera semplicemente una don-na, corpo prima che anima, esistenza prima che essenza. Artemisia dipinge il suo manifesto di libertà del corpo, libertà anche di perdere l’armonia quando il pensiero è pesante, in quanto la morte è prossima, i sensi si abbandonano, la coscienza si attenua e la donna non ha tempo di pensare all’eleganza del suo corpo, a mostrarsi in ordine. Il dolore è fisico, c’è forse una trasposizione autobiografica in questo volto che ne richiama altri nella pittura di Artemisia. La bellezza di quel volto cede alla smorfia, la lussuria del corpo all’abbandono della carne. Non c’è incertezza, non c’è esitazione nel gesto di questa Cleopatra determinata, senza languori e coraggiosa. Proprio in questa attribuzione a una donna di nobili attitudini, solitamente riferite al mondo maschile, consiste l’elemento più nuovo del dipinto, un quadro particolarmente libero di Artemisia Gentileschi, una Cleopatra non priva di quella forza fisica a cui Artemisia sembra abituata essendo quasi sempre aggressiva. La sua protagonista è qui ridotta all’essenziale, remissiva, e senza l’aiuto retorico di vesti roboanti. Anche Giusto Fiammingo si muove sui personaggi interpretati da Arthemisia, ed è notevole la sua Cleopatra, comparsa nel 1994 in asta (Pandolfini, Firenze, 19 ottobre 1994, n. 624) e attribuita inizialmente alla scuola di Guido Reni, ricondotta da Gianni Papi a Giusto Fiammingo sulla base della fotografia pubblicata nel catalogo di tale vendita (Papi 2014a, pp. 60-67).
La mostra prosegue con la Maddalena assistita dagli angeli di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, il San Girolamo di Jusepe Ribera, la Vita umana di Guido Cagnacci e il Ritratto di Francesco Righetti di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino. Quest’ultimo dipinto – “rientrato a casa” nel 2004 dopo essere stato esposto per anni al Kimbell Art Museum di Fort Worth, in Texas – è il primo di una eccezionale galleria di ritratti che compendia lo sviluppo del genere dall’inizio del Cinquecento alla fine dell’Ottocento, tra pittura e scultura, da Lorenzo Lotto a Francesco Hayez, con specialisti quali Bartolomeo Passerotti, Nicolas Régnier, Philippe de Champaigne, Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio, Enrico Merengo, Ferdinand Voet, Giovanni Antonio Cybei, Pietro Labruzzi, Lorenzo Bartolini, Raimondo Trentanove e Vincenzo Vela. Altrettanto avvincente è il percorso tra dipinti di tema sacro, allegorico e mitologico del Sei e del Settecento: una selezione di sorprendente varietà, e di alta qualità, che riflette gli interessi sconfinati e la frenesia di ricerca del collezionista, con maestri della scuola veneta (Marcantonio Bassetti, Pietro Damini, Pietro Vecchia, Johann Carl Loth, Giovanni Antonio Fumiani), emiliana (Simone Cantarini, Matteo Loves, Marcantonio Franceschini, Ignaz Stern detto Ignazio Stella), lombarda (Paolo Pagani, Agostino Santagostino), romana (Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino, Angelo Caroselli, Pseudo Caroselli, Giusto Fiammingo, Antonio Cavallucci), toscana (Giacinto Gimignani, Livio Mehus, Alessandro Rosi, Pietro Paolini, Giovanni Domenico Lombardi).
Colpisce, di Pseudo Caroselli, Giuditta con la testa di Oloferne qui esposta, per la sua espressività che rimanda all’ambiente del teatro con trucchi e costumi, inscenando episodi storici, biblici o mitologici. Tra le opere a tema mitologico, è catartico il dipinto di Agostino Santagostino (Milano, 1633 – 1699) ”Polifemo scaglia un macigno contro Aci”, un Olio su tela del 1669. L’episodio si riferisce alla tradizione ovidiana (Metamorfosi, XIII, 750-897) dell’amore del ciclope Polifemo per la nereide Galatea, promessa sposa del pastore Aci, figlio di Pan. Il dipinto raffigura la tragica fine del mito, quando Polifemo, sorpresi gli amanti abbracciati in riva al mare, si vendica uccidendo il giovane rivale con un masso, mentre la ninfa fugge. Firmato e datato 1669, il dipinto rappresenta una delle prove più antiche del pittore milanese Agostino Santagostino, conosciuto per dipinti di tema sacro distribuiti nelle chiese della sua città.
Non mancano le sculture, tra cui le delicate creazioni di Giuseppe Mazza, Cesare Tiazzi, Petronio Tadolini e Giovanni Putti che documentano la fortuna della plastica in terracotta a Bologna e in Emilia. Il periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento è documentato dagli artisti ferraresi: Gaetano Previati, con un bellissimo Cristo crocefisso del 1881, Giovanni Boldini, con alcuni disegni che rivelano una quotidianità distante dallo sfarzo della Belle Epoque, Filippo de Pisis, Giuseppe Mentessi, Adolfo Magrini, Giovanni Battista Crema, Ugo Martelli, Augusto Tagliaferri, Carlo Parmeggiani, Arrigo Minerbi, Ulderico Fabbri, tutti presenti con testimonianze fondamentali. Molto bella la scultura in maiolica di Andrea Parini(Caltagirone, 1906 – Gorizia, 1975), Ritratto della figlia del 1941, che riporta in basso la scritta “Figlia, ti vorrei casalinga e scrittrice. Un omaggio all’arte italiana, alla città di Ferrara e alla sua storia attraverso i tesori d’arte custoditi nell’importante collezione ferrarese. Il catalogo della mostra, a cura di Pietro Di Natale, è pubblicato da La nave di Teseo editore. Vittorio Sgarbi e Elisabetta Sgarbi, fondatori della Fondazione Cavallini Sgarbi e, rispettivamente, Presidente della Fondazione Cavallini Sgarbi e della Fondazione Elisabetta Sgarbi dedicano la mostra a Giuseppe Sgarbi e Caterina Cavallini.